Che ce ne facciamo di queste playlist tutte uguali?

4 Gennaio 2015

«Ci mandi la tua playlist?». Sino a una decina di anni fa chi scriveva di musica a fine novembre veniva contatto dalle redazioni dei mensili specializzati. E preparava la propria lista, dieci nomi in cui condensava i propri ascolti, spesso frutto di impuntature, precipitato di una nicchia di gusto che per una piccola comunità di fruitori rappresentava una referenza certa e per tutti gli altri niente di più che una curiosità. Quelle playlist finivano in un paginone centrale e davano spesso risultati spiazzanti, che definivano più di ogni altro elemento (cover, articoli di apertura, dischi del mese) la linea di un magazine. Chi ha militato nell’underground italiano ricorderà le discussioni infinite intorno a scelte imprevedibili, come quando gli sconosciuti Sun Dial, band di space rock britannico, si ritrovarono nel 1990 in cima alla classifica di Rockerilla, o la “battaglia culturale” sostenuta da Claudio Sorge, allora critico di punta in ambito alternative rock, a difesa della scena garage coagulata attorno a gruppi sotterranei americani come i Morlocks e gli Electric Peace. Esistevano poi le reader’s poll, pubblicate di solito a un mese di distanza da quelle dei collaboratori. E immancabilmente più attendibili, rappresentative del gusto medio, termine di riferimento anche per chi voleva capire cosa si vendeva davvero, dato che le charts ufficiali erano “drogate” dai numeri gonfiati delle major. Se le playlist dei critici vedevano di volta in volta emergere meteore come Happy Mondays, La’s, Babybird, Kula Shaker, i lettori premiavano Nick Cave, Tom Waits, Cocteau Twins, Dead Can Dance, dimostrando di essere per lo più impermeabili alla ricerca ossessiva della “next big thing” che la stampa specializzata nostrana mutuava dai britannici Melody Maker e New Musical Express.

Perdonate l’excursus archeologico ma è estremamente complicato per chi è cresciuto dentro quella frammentazione del gusto orientarsi oggi nella miriade di playlist pubblicata in Rete da blogger, contributor, dj. Complicato non già perché la moltiplicazione delle voci abbia prodotto, come ci si potrebbe aspettare, un’ulteriore parcellizzazione e dispersione degli ascolti, sino a determinare una miriade di playlist autoreferenziali, per quel fenomeno di autismo corale che è uno dei prodotti deteriori del web. Al contrario, tutte le poll finiscono per somigliarsi e ribattere gli stessi nomi. Nell’età in cui la distribuzione digitale non è ancora riuscita a compensare il decremento del consumo di musica su supporto fisico, il budget dedicato al marketing dalle case discografiche ridotto al lumicino, l’estinzione pressoché totale delle superfici retail dedicate, accade che gli ascolti si orientino su poche referenze, difficili da tracciare in termini di vendite e consumo reale (anche utilizzando i dati delle piattaforme come Spotify e Deezer o le classifiche di Last.Fm). Basta navigare tra le playlist dei principali siti italiani per vedere che i nomi ricorrenti sono sempre gli stessi: St. Vincent, Fka Twigs, Mac De Marco, War On Drugs, Todd Terje. Su tutti il duo di rappre newyorkesi Run the Jewels. Nomi differenti da dodici mesi fa, quando andavano per la maggiore Kendrick Lamar, Frank Ocean, Miguel, Jessie Ware. La velocità di ricambio è altissima, e ancora un paio di anni fa in queste classifiche si trovavano artisti identificati ormai come mainstream, da Drake a Lana del Ray o Lykke Li, dunque dimenticati da queste classifiche attente all’hype e dunque estremamente sensibili allo scarto tra chi deve ancora completare il proprio percorso di affermazione e chi è definitivamente emerso.

Dietro a questa uniformità del gusto c’è soprattutto il ruolo di forte egemonia esercitato da Pitchfork, la webzine di critica musicale che negli ultimi vent’anni si è lentamente sostituita per autorevolezza ai magazine storici-i vari Rolling Stone, Billboard, Q- e alle testate di più recente affermazione, da Mojo a Uncut e Les Inrocks. Nata a metà degli Anni Novamta come risorsa giornalistica indipendente dedicata per lo più all’indie rock, Pitchfork ha contribuito nello scorso decennio all’affermazione dei vari Arcade Fire e Broken Social Scene, costruendosi la fama di prezioso strumento di scouting di nuovi talenti. Negli ultimi anni, P4k (abbreviazione usata dai lettori) si è progressivamente rifocalizzato su hip hop, rap e black music, imponendo nel contempo una nuova estetica, fondata sull’attenzione per il recupero di sonorità e stilemi degli scorsi decenni. Questa tensione verso il passato, consolidata dai contributi di Simon Reynolds, il critico musicale che gode oggi di maggiore popolarità (si veda “Retromania”, lavoro pubblicato nel 2011, editato in Italia da Isbn), fa di Pitchfork una sorta di Giano Bifronte, che da un lato non ha smesso di seguire l’evoluzione di sonorità e stili, e dall’altro coniuga la bassa pulsione verso il vintage che connota la nostra epoca nell’individuazione delle più sofisticate (e stratificate) forme di citazionismo, promuovendo artisti come Ariel Pink che sembrano vivere in una bolla retro-futurista, mettendo in discussione la nostra nozione di presente.

Reynolds parla di “hauntology”, “impronta memoradelica”, e recupera il “crate digging”, espressione propria della cultura hip hop, che indica la ricerca ossessiva di vinili in negozi indipendenti, applicandola a un’attitudine che compendia la mera ricerca di suoni e atmosfere appartenenti ad altre epoche a tendenze più sottili, che definiscono sottogeneri “retromaniacali” come la chillwave, il glo-fi o l’ hypnagogic pop, termine quest’ultimo coniato da un altro critico influente, David Keenan di “The Wire”. “ Keenan parla di storpiature della memoria, che finiscono per infiltrare nelle nuove produzioni tracce di musica dei decenni passati. Era stato James Ferraro, producer newyorkese, a suggerire per primo che molti dei suoni Anni Ottanta che figurano negli arsenali stilistici degli artisti seguiti da Pitchfork siano stati in realtà assorbiti dai musicisti di oggi in maniera involontaria, in uno stato di dormiveglia, quando, a tarda sera, i genitori ascoltavano i dischi in soggiorno, e la musica arrivava, ovattata e poco riconoscibile, sin nelle loro camerette di teenager.

Il tratto che accomuna oggi molti degli artisti che compaiono nelle playlist di fine anno è proprio l’assimilazione consapevole di elementi della musica degli scorsi decenni. Non si spiega altrimenti il successo di una band come i War on Drugs, che sono una sorta di shake di rock FM di grana grossa, da Springsteen a Bryan Adams ai Dire Straits, e però vengono celebrati come stelline sotterranee. Né si spiegherebbe l’appeal del cantautorato risaputo di Mac De Marco, o l’elettronica tutto sommato prevedibile di Todd Terje, che addirittura recupera “Johnny and Mary” di Robert Palmer, affidandola, in un cortocircuito di richiami alla videoclip-era, alla voce di Brian Ferry. Non si tratta forse di adulterazioni studiate consapevolmente per muovere il successo commerciale, come l’artificiosa necrofilia di Lana del Rey per il bubble-gum pop, ma è evidente che nel profluvio di tastiere che informa le strutture sonore di un Frank Ocean o di una Jessie Ware, è inscritto il senso di un più confortevole scivolamento all’indietro, verso estetiche ancora facilmente riconoscibili, contro la saturazione di influenze e di impulsi che fanno di molte produzioni degli oggetti ibridi e sfuggenti, difficilmente catalogabili ma anche scarsamente fruibili da un ascoltatore distratto, o comunque non attratto dal fascino oscuro di quest’ossessione filologica.

Sospesi tra i rabdomanti di estetiche dimenticate e in consumatori di musica tanto al chilo delle piattaforme digitali a tariffa flat (il pubblico cresciuto con Napster e diseducato dall’ascolto gratis), sopravvivono ascoltatori poco sedotti da questa convergenza del gusto, che costringe profili social e blogger a rimpallarsi gli stessi hype, tutti altamente deperibili, esattamente come una volta i tabloid inglesi lanciavano il singolo della settimana. Dunque sorpresi e spiazzati quando tutti a inizio dicembre postano il ritorno di D’Angelo, e qualche settimana prima Dean Blunt, mentre già Chet Faker sembra preistoria, già totalmente consumato e svuotato di senso. Oggi è la volta di Theo Parrish, ma arriverà alla Befana? Non è forse il caso di rimarcare il carattere spurio di questa viralità. La contrazione delle risorse a disposizione del mercato discografico ha determinato anche una riduzione drastica dei posti di lavoro. Continuano a vivere di musica coloro che sono capaci di fare più mestieri assieme. E dunque produttore, boss di una label magari solo digitale, o che stampa su cd in tirature limitatissime e non distribuite nei negozi, con edizioni deluxe in vinile che non sai bene se collocare nella categoria “release” o in quella “merchandise”. E ancora ufficio stampa, titolare di un’agenzia di booking, critico, blogger e deejay. Con la tendenza inevitabile a sconfinare da un mestiere all’altro. Si spiega anche così come di colpo, rimanendo alle cose di casa nostra, sia praticamente inevitabile imbattersi in qualcuno che non parli di volta in volta dei Drink To Me o dei Niagara come del gruppo italiano migliore dai tempi degli Afterhours, o ti guardi dall’alto in basso perché non conosci Clap!Clap! e Lorenzo Senni, non hai ascoltato l’ultimo Populous e non vai al concerto di Colapesce.

Forse a questo punto qualche lettore potrebbe chiedersi quali dischi mi siano piaciuti nell’anno appena concluso. Ho idee chiare in proposito: Mogwai e Notwist, anzitutto. Due nomi che mi sorprende non trovare nelle playlist di fine anno, perché mi erano sembrate indicazioni quasi scontate, alla luce della qualità rispettivamente di “Remurdered” e “Close to the glass”. Ci sono nomi collaudati che sono ancora di grande richiamo (uno su tutti gli Swans, che improvvisamente piacciono a tutti) e altri evidentemente che catturano meno. Segnalo anche che è uscita una bellissima raccolta di Sun Ra, “In the orbit of Ra”: la maniera migliore per celebrare questo straordinario ed eccentrico musicista nell’anno del centenario della nascita, con una selezione curata da Marshall Allen, attuale leader dell’Arkestra. Selezionare una ventina di tracce da una produzione di circa centocinquanta album non era cosa facile, Allen ha scelto i lavori forse più tradizionali, ma proprio per questo si tratta di uno strumento affidabile anche per chi voglia avvicinare per la prima volta questo titano (per molto tempo misconosciuto dalla critica) del jazz.

 

 

Per restare a qualcosa di più pop, credo che sia uscita quella che è certamente il miglior best of di sempre di David Bowie. Si chiama “Nothing has changed” e in tre cd condensa una produzione straordinariamente attuale, che sfugge alle “retromanie” per la capacità di raccontare ancora il tempo in cui siamo immersi. Per inciso, Mojo ha appena chiamato a raccolta per il numero in edicola i propri esperti, chiedendo di stilare i migliori cento brani di Bowie. E al “duca bianco” dedica una copertina in tre diverse versioni, una per decennio. Se “rivivere” non è nelle vostre corde (forse però è questo lo spirito dei tempi, non ce lo dice anche “Les Revenants?”) e guardate ostinatamente in avanti, potreste provare con “Xen”, esordio di Arca, moniker dietro cui si cela il produttore venezuelano Alejandro Ghersi. Nel 2013 era a fianco di Kayne West in “Yeezus”, tra qualche mese lo ritroveremo a firmare l’album di Byork. Ma dando uno sguardo retrospettivo al 2014, tra mainstream e underground, anche altre rappresentazioni del presente ci hanno colpito.

 

 In pochi per esempio hanno dato credito a “Monument” il singolo ultimo frutto della collaborazione tra i norvegesi Röyksopp e la vocalist svedese Robyn, capace d’incarnare un’idea di europop che regge anche ai tempi di “Interstellar”. Più sotterraneo è il lavoro del musicista russo Volor Flex (anche sotto la nuova egida Trampique), che riprende in chiave più accessibile la ricerca di Burial sulla destrutturazione del dubstep. In tema di intelligent dance, segnalo infine il nuovo lavoro di Chris Clark, per la Warp, intolato semplicemente “Clark” e il ritorno di uno dei padri della techno, Richie Hawtin, che recupera il nom de plume Plastikman per editare “EX”, forse il suo lavoro più “musicale” di sempre. Per cominciare il 2015 dovrebbe bastare.

TAG: Claudio Sorge, david bowie, dj, playlist
CAT: Musica

Un commento

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  1. carlosorma 9 anni fa

    Parlo da profano e da semplice ascoltatore, non certo da critico, quindi potrei ampiamente sbagliarmi. Nel tentativo di orientarmi, ormai in corso da qualche anno, nella giungla delle recensioni e delle classifiche online, ho notato una cosa che noti anche tu: il continuo rimpallarsi di elogi e critiche verso gli stessi artisti, poi dimenticati nel giro di qualche mese. Di solito il capostipite è appunto Pitchfork (forse il network con più puzza sotto il naso del mondo conosciuto), mentre i siti italiani (Ondarock o Sentireascoltare, per dire) vanno a rimorchio. Questo meccanismo genera nel lettore una difficoltà estrema nell’orientarsi in questa miriade di proposte, che spesso propagano generi conosciuti da 2000 persone in tutto il globo (e per questo più fighi, ovviamente). Magari questi artisti meritano anche, non c’è dubbio. Ma la cornice li squalifica al grande pubblico (a cui tutti aspirano, anche se non lo dicono).

    In tutto ciò il maledetto mainstream è quasi dimenticato: una volta che compari su una classifica di vendita hai una macchia sulla coscienza, e le recensioni di conseguenza peggioreranno a prescindere. A meno che tu non sia un nume tutelare da anni, tipo gli Arcade Fire (che sono stati incensati anche per quel plasticoso ultimo disco preso direttamente dagli anni ’80).

    Credo servirebbe un bagno di umiltà, oltre che quella cosa che molti critici letterari sembrano aver capito: il gusto del pubblico non è per forza lo sterco del demonio. Anche la musica di consumo, così come la letteratura residuale-marginale, va considerata, studiata, analizzata e poi incensata o criticata.

    (Un’altra cosa che mi è piaciuta sono i tuoi consigli finali, aldilà dei gusti. Consigli, e non imposizioni.)

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