Immigrazione, non Sottomissione

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19 Aprile 2015

I limiti politici e culturali della Presidente Boldrini sono piuttosto evidenti ma non esiste un solo partito in tutta Europa che riesca a fronteggiare la questione dell’immigrazione vista non come un fenomeno saltuario ma vissuta come una invasione, né con i propri iscritti né tantomeno nei propri programmi e nella comunicazione pubblica. E anche il mondo degli intellettuali occidentali, Stati Uniti esclusi, mostra un’aridità nelle produzioni che va dal dare una verniciata di nobiltà alla pancia degli europei, stile Houellebecq, al silenzio per paura di esclusione dai caratteri piombati.

La parola conseguente al concetto di invasione è: sottomissione, che ai miei occhi ha due e non una sola declinazione. La prima, largamente maggioritaria, narra il rischio percepito di doversi sottomettere in un futuro indeterminato ma imminente a regole di vita estranee alla nostra cultura:  l’immigrazione, secondo i cantori della disfatta occidentale, porterebbe alla affermazione di regole, religiose e no,  sulla pelle degli europei autoctoni, ridotti a minoranza sottomessa in casa propria. La seconda declinazione, che io considero molto più insidiosa, è quella, a fronte dell’invasione,  di rinunciare ai risultati del faticoso progredire inclusivo del concetto di cittadinanza laica che nella storia occidentale parte dalla Politica di Aristotele e che attraverso l’anno I della Rivoluzione Francese arriva sino a noi, poi in Italia declinato a modo nostro in alcuni articoli “comunitari” della Costituzione.

Sul primo significato di sottomissione non mi soffermo, basta aprire i giornali o parlarne in qualsiasi ambiente. Il secondo invece io lo vivo come la autentica resa, un passo indietro rispetto ai nostri standard di vita e alla nostra stessa libertà: l’Occidente ha prodotto un sistema di regole liberali che mostrano una capacità straordinaria di coniugare sacralità laica della vita umana e la modernità ai quali io non ho nessuna intenzione di rinunciare per una paura perché, questo sì, sarebbe un vero, tangibile, concreto atto di sottomissione: se noi venissimo meno ai principi della nostra civiltà di fronte ai barconi, diciamolo chiaramente, avrebbe vinto l’Isis e tutto quel mondo che trova nella esistenza delle libertà occidentali e nel nostro rispetto per la vita umana il maggior pericolo per la propria sopravvivenza religiosa, culturale ed economica.  Non è la prima volta che in questi anni si apre nelle nostre società una discussione su quale sia il grado delle libertà accettabili e dei diritti tutelabili di fronte a un pericolo, negli Stati Uniti vi furono e vi sono discussioni piuttosto accese sulla invasività delle agenzie per la sicurezza rispetto alle libertà dei cittadini dopo l’11 Settembre. Noi europei invece rifiutiamo di discutere e di fronte a un fenomeno che ha almeno vent’anni non stiamo dividendoci su un piano per gestire l’immigrazione ma continuiamo ad accarezzare le paure dell’elettorato come lepri abbagliate dalle luci notturne. Le tragedie nel canale di Sicilia non sono cosa di questi giorni: dalle crisi dei Balcani in avanti l’Italia, da sola e con capacità, ha dovuto affrontare crisi ricorrenti ogniqualvolta scoppiava una guerra mediterranea o un simulacro di Stato si dissolveva, magari anche con responsabilità gravi dell’Occidente come in Libia o nel Corno d’Africa: i morti affogati sono da inizio anno, nonostante i nostri sforzi, già pari a quelli, ad esempio, dell’ultimo conflitto tra Israele e palestinesi che alimentò a sua volta un’ondata di immigrati.

E l’Italia non è stata solo brava nel gestire i soccorsi, pur con tutti deragliamenti corruttivi che abbiamo scoperto: l’Italia è stata bravissima nel processo d’integrazione perché se collettivamente rifiutiamo l’idea, individualmente per convenienza economica o per sensibilità culturale abbiamo garantito finora un’integrazione di gran lunga migliore e con infinitamente minori problemi rispetto a Francia, Gran Bretagna e Germania, tutti paesi che hanno una storia coloniale e di immigrazione, quindi di cittadinanza, più antica della nostra.  Ha dell’incredibile che noi per paura non si debba rivendicare davanti a noi stessi, all’elettorato e alla comunità internazionale questa straordinaria virtù.

Oggi l’Italia non è più il paese verso il quale guardano gli immigrati, il nostro saldo demografico è negativo anche contando la marea di arrivi dello scorso anno perché  sono più quelli che se ne vanno, italiani compresi, di quelli che arrivano: paradossalmente potremmo dire che l’Italia è un paese di transito quanto la Libia. Ma è un transito che da soli non possiamo continuare a gestire, salvo decidere di violare le regole del trattato di Dublino che tra l’altro prevede la registrazione delle impronte digitali nel paese comunitario di arrivo e la conseguente permanenza in quel paese: quanti urlatori dell’italianità e della paura sono consapevoli che quando chiedono le impronte digitali per gli immigrati come fossero delinquenti in realtà seguendo quel trattato fanno un autogol condannando l’immigrato a rimanere in Italia e facendo un gran favore ai Paesi del Nord Europa?

Torniamo per un attimo ad essere consapevoli di noi stessi e delle nostre libertà faticosamente conquistate: la paura nei confronti dell’immigrazione è logica e comprensibile. Lo è maggiormente nei momenti di crisi politica o economica, lo racconta la storia occidentale,  quando una crisi cerca un untore e alla naturale diffidenza per il nuovo arrivato si somma una paura che nasce altrove per il nostro individuale futuro economico. Questa è la pericolosissima situazione che stiamo vivendo e che richiede non solo azione politica determinata con i nostri partner ma anche uno sforzo intellettuale forte per comprendere che questa paura non deve in nessun modo intaccare i nostri livelli di civiltà, pena la nostra sconfitta, perché sarebbe oltretutto un prezzo inutile.

E qualcosa dobbiamo far presente con determinazione anche a chi qui arriva e cioè, parafrasando lo storico Richard Tawney che poco mi piace ma che qualche volta ha avuto eccellenti intuizioni: non basta accettare il nostro codice civile e penale e la nostra costituzione perché il carattere di una società … non dipende da che cosa i suoi membri hanno diritto di fare, se ne sono capaci, ma da che cosa sono capaci di fare, se vogliono. A intenderci, noi offriamo diritti e libertà, offriamo anche la possibilità che è stata data nei secoli a noi di divenire capaci di esercitarli e difenderla ma a quel punto bisogna anche volere integrarsi: e questa scommessa la dobbiamo fare in due spiegando bene che  integrazione non fa rima con sottomissione ma con libertà: quella che in molti non hanno mai avuto.

TAG: immigrazione
CAT: Geopolitica, Politiche comunitarie

Un commento

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  1. sghignazzo 9 anni fa

    integrazione per gli extracomunitari significa ottenere la nostra stessa libertà…libertà significa dover difendere la libertà….difendere la libertà significa anche essere pronti a combattere per la libertà…chi vuole la nostra stessa libertà deve essere pronto a difenderla…traduco….ripristinare il servizio militare per tutti, per gli italiani tra i 18 ed i 21 anni, invece tra i 18 ed i 30 anni per gli immigrati extracomunitari illegali : chi non è pronto a combattere per la cultura che lo accoglie e protegge può restarsene a casa sua… per i nostri ragazzi si tratta di prepararsi adeguatamente alle nuove, impreviste situazioni ed insieme vivere un periodo di integrazione tra loro e con i nuovi arrivati , sfuggire alla trappola del sentirsi sempre e comunque “altro” ( un atteggiamento ormai diffuso e rischioso per la società nel suo complesso )

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