Quella droga chiamata Workshop

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14 Settembre 2015

Ieri sera, chiacchierando davanti a un bicchiere di vino con un buon amico (e ottimo attore) l’ho sentito dire, più o meno, queste parole: «Ma come si fa a lavorare nel teatro oggi? Non sono massone, non sono pd, non sono di Cl o dell’Opus Dei, non sono nemmeno ebreo. E poi non sono gay, non sono figlio di papà, non ho zii o cognati, non c’è in famiglia né un vescovo né un senatore. Forse, se mi faccio arrestare, posso fare teatro in carcere! Intanto, adesso, vado a fare quel workshop di un mese…».

Infervorato e divertito dai toni scherzosi e dei paradossi, al terzo bicchiere ho capito che il problema è serio e riguarda non tanto il coté relazionale o parentale tutto italiano, quanto piuttosto il nodo gordiano dell’eccesso di workshop.

Oggi il “laboratorio” è diventato una tossicodipendenza, una schiavitù, una coazione a ripetere. Il guaio è che, nel teatro italiano, le “masterclass” sono prassi quotidiana. Quando ho iniziato a fare critica, una ventina di anni fa, erano l’eccezione, l’evento unico e irripetibile, l’occasione davvero da non perdere.

Oggi tutti fanno workshop (compreso chi vi scrive). E tutti frequentano workshop.

La questione sta diventando ansiogena: perché, di fatto, si avverte, sempre più diffusa, un’obbligatorietà della “formazione continua” quasi che a mancarne uno, di laboratorio, si va in crisi d’astinenza.

C’è chi si sbatte da una parte all’altra della penisola, a caccia del workshop perfetto e chi li ha fatti tutti: alzando la dose, la gratificazione è maggiore?

Abbiamo scritto più volte, e lo ripeto, che questo passare dalla “straordinarietà” alla “serialità” della pratica laboratoriale provoca alterazioni della realtà. Il guaio è che per attori e performer il workshop prende il posto del lavoro, l’aggiornamento professionale permanente è sostitutivo (o alternativo) alla professione, mentre dovrebbe essere collaterale e marginale, seppure necessario. Tanto più grave, poi, quando questa pratica laboratoristica viene “integrata” nel lavoro in una sorta di anomalo stage: in buona sostanza, il workshop sostituisce le prove, con il risultato di avere prove gratis (con risparmio per chi produce e perdita per chi fa).

Si sa, sono soprattutto i “giovani” a cadere nella dipendenza: quella fascia che va dai “neodiplomati” ai quarantenni in crisi. La fascia più debole.

Allora voglio fare un appello.

Attori, attrici, performer italiani: uscite dal tunnel! Smettete di sottostare a laboratori capestro! Smettete e fate smettere i vostri amici! Basta!

Non sentitevi in colpa.

Molti di voi (non tutti) sono bravi, preparati, iper-professionali. Avete fatto Accademie, scuole, perfezionamenti. Siete formati quanto basta per fare Medea o Riccardo III, per stare in scena con Jan Fabre o Nekrosius, per dare il vostro segno sulla scena italiana. Dunque, cominciate a dire “no”, riportate il laboratorio a un momento straordinario e saltuario del vostro percorso professionale. Non cedete ai ricatti: “così magari mi nota”, “così mi faccio conoscere”, eccetera eccetera…

E anche voi, Maestri, che avvertite così forte l’impeto pedagogico: se proprio volete insegnare, passare un testimone, sperimentare nuovi modelli di teatro, unitevi alle tante scuole che già esistono. Portate le vostre competenze e qualità nelle scuole italiane di teatro. Ora, poi, che anche i Teatri Nazionali (nella foto di copertina i bravi allievi della ottima Scuola del Piccolo di Milano) hanno l’obbligo pedagogico-formativo, serviranno sicuramente maestri pedagoghi di qualità. Ebbene: date il vostro contributo a razionalizzare l’offerta formativa quantomeno eclettica del nostro belpaese.

E infine voi, Scuole e Accademie: aprite il corpo docente a questi professionisti della scena, sicuramente nell’incontro e nello scambio con i Maestri già incardinati nasceranno cortocircuiti virtuosi e positivi.

Ho raccontato più o meno questo, al mio amico. Poi gli ho augurato di fare un buon laboratorio, così che, forse, il regista lo sceglierà per chissà quale produzione…

TAG: Formazione, laboratorio, pedagogia teatrale, teatro, workshop
CAT: Teatro

6 Commenti

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  1. marco-marangone 9 anni fa

    Ci faccia sapere tra qualche mese quanto il suo appello avrà attecchito sulle corde sensibili di moltissimi (non tutti) Maestri: l’ego ed il conto corrente.

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  2. filipporenda 9 anni fa

    Caro Andrea Porcheddu,
    ho cercato di rileggere più di una volta le sue parole per non incorrere in facili equivoci. Se non scrivo male lei afferma che i laboratori sono una schiavitù, una tossicodipendenza; scrive addirittura “laboratori capestro”; consiglia vivamente a chi ha intrapreso la carriera di attore di starne alla larga, di uscire dal tunnel.
    E una volta che questo consiglio verrà seguito, dove e come potrà avere luogo la ricerca artistica? in quale condizione spaziotemporale un artista potrà porsi degli interrogativi che siano avulsi da una messa in scena, da un pubblico giudicante?
    Forse, piuttosto, bisognerebbe chiedere a chi fa questo mestiere di non cercare e/o creare mezzi obliqui per trovare un lavoro, di non partecipare a un laboratorio confidando di venire scritturati per il prossimo spettacolo; di non organizzare un laboratorio per “arrotondare”.
    In questo momento storico, in cui tutto è azienda, tutto è caccia spasmodica di profitto, in cui l’unico linguaggio universale pare essere quello contenuto nei conti correnti, bisognerebbe ridare dignità a chi fa ricerca, di qualunque natura essa sia, bisognerebbe sostenere chi esce dalle dinamiche del profitto per compiere sperimentazione.
    Credo sia importante sottolineare la differenza tra un laboratorio e un corso di teatro e tra un laboratorio e un’audizione mascherata.
    Spero che queste mie parole non vengano prese come una provocazione, ma possano fornire un contributo dialettico.
    Su una cosa sono assolutamente d’accordo: sarebbe utile smettere di cercare “Maestri”, profeti in grado di mostrare la “via del teatro” anche ai ciechi e cominciare a investire maggiormente sui propri talenti, sulla propria professionalità e sul proprio nome (parafrasando Lacan nel seminario X): in questo modo, forse, i laboratori si svuoteranno di facili risposte per ridivenire spazi di domanda.

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  3. max-vado 9 anni fa

    caro Porcheddu
    tu mi cadi spesso nello stesso errore: predichi bene e razzoli malissimo.
    presso il teatro Valle occaro, che tu molto hai sostenuto e sponsorizzato, il workshop era una prassi consolidata, così come le prove non pagate, la mancata SIAE, il compenso nullo agli attori e svariate altre forme di distruzione teatrale.
    ora, se come dici e sostieni, è ora che molti attori smettano di fare workshop, sarebbe anche coerente tornare indietro e fare pubblica ammenda sulla legalità e a proposito di un modo di lavorare a teatro ch rispetti noi stessi e gli altri.
    Io, comunque, non ho mai frequentato, tenuto, pagato alcun workshop. Mai.

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  4. umbrito-tamburini 9 anni fa

    mAGARI I SONO TROPPI CHE SI APPICCICANO SUL PETTO -E SCRIVONO NEL BICLIETTO DI VISITA- ATTORE, COME SURROGATO DEL NON SO CHE. iL TEATRO -VIENNA INSEGNA- E’ NECESSARIO QUANTO GLI OSPEDALI, MA COME GLI OSPEDALI- HA BISOGNO DI QUELLO CHE (USUALMENTE) NEGLI OSPEDALI DIFETTA, E INGENERA MALASANITA’

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  5. max 9 anni fa

    Dica al suo amico che sono ebreo e non per questo lavoro più di altri colleghi gentili.

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  6. l-g-monda 9 anni fa

    Molto d’accordo con Filippo Renda. Ritengo che oggigiorno ci sia troppa vanità – anche nel proferire parola sulle arti teatrali – e poca umiltà. Questo considerando che chi sceglie seriamente di praticare le arti performative (insegnando, recitando, danzando, suonando, dirigendo) non sceglie un lavoro ma più che altro fa una scelta di vita. Una scelta che presuppone come principio quello di essere sempre alla ricerca di ciò che non si conosce. Una scelta che non presuppone in alcun modo l’apparire, ma l’essere. Questo è un viaggio che dura tutta la vita. La condizione laboratoriale è quella che più si adatta a tale ideologia. Il ridicolizzare ciò attraverso un articolo che si pone forse un obiettivo critico nei confronti della realtà italiana, mi sembra inappropriato. Non si può fare di tutta un’erba un fascio, bisogna iniziare a distinguere il professionismo dal dilettantismo, la smania di apparire con la necessità di essere.

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