È finita la recita di Natale. L’ipocrisia delle feste e la realtà della vita

26 Dicembre 2015

Una delle cose tradizionali e simpatiche del Natale sono le recite dei bambini. Anzi direi le recite in generale. Recitiamo a fare la parte dei buoni, recitiamo portando regali che spesso non esprimono i veri sentimenti che abbiamo verso le persone, recitiamo persino la parte di credenti convinti, ostentando la pretesa di essere veri depositari del senso del Natale. Per fortuna le recite finiscono. E torniamo a fare i conti con quello che abita veramente il nostro cuore.

Le recite dei bambini suscitano tanta tenerezza. Non solo per i bambini, ma anche per i genitori, che guardano i propri figli con un candore ingenuo, come se per un momento i loro figli fossero diventati le star del momento. Però anche le recite dei bambini finiscono, e, loro malgrado, tornano a essere i bambini di sempre, i bambini normali che fanno i capricci, che non obbediscono, che si stufano di ascoltare i rimproveri dei genitori.

Dentro il Vangelo di questa domenica, oltre certamente al più profondo significato teologico, c’è anche questo: l’inquietudine di due genitori che si devono confrontare con le domande impreviste e il comportamento indecifrabile del proprio figlio all’inizio dell’adolescenza.

Gesù ha dodici anni, dice il testo, ancora non ha raggiunto la maggiore età, che nel mondo ebraico viene celebrato l’anno dopo. Ma Gesù appare come un ragazzino che comincia a desiderare la propria autonomia e a cercare la propria strada.

Ogni genitore ha inevitabilmente la tentazione di considerare il proprio figlio come sua proprietà: il diritto romano lo aveva persino sancito giuridicamente, il pater familias, dopo la nascita del bambino, lo sollevava da terra e con quel gesto lo riconoscevo come suo figlio, ma nello stesso tempo affermava su di lui il diritto di vita e di morte.

La vita però ci svela che i figli non ci appartengono, sono un dono gratuito, sfuggono al nostro controllo, non possiamo mai arrivare a scolpirli esattamente come vorremmo. Sono destinati a lasciarci. I genitori sono chiamati ad offrire loro radici a cui poter sempre ritornare, ma al contempo, i genitori sono chiamati a dare loro anche ali affinché possano intraprendere il loro volo.

Il racconto di Anna che porta al Tempio il figlio Samuele è esattamente il riconoscimento di questo dono, la consapevolezza che i figli appartengono a colui che li ha donati. Dietro la normalità di un episodio di vita familiare, che oggi ci viene raccontato dal Vangelo, dentro un momento di ordinaria incomprensione tra genitori e figli, c’è un senso teologico ancora più profondo.

Innanzitutto perché Gesù compie insieme ai propri genitori un viaggio verso Gerusalemme, anticipando in qualche modo quel viaggio che proprio nel Vangelo di Luca è il centro del racconto: alla fine del capitolo nove, Gesù deciderà consapevolmente di andare a Gerusalemme per dare la sua vita per noi.

E a Gerusalemme, il ragazzino Gesù resterà per tre giorni, dice il testo, proprio come per tre giorni resterà nel cuore della terra, nel sepolcro a Gerusalemme, senza che nessuno possa trovarlo. Maria cerca il bambino Gesù, come le donne cercheranno Gesù al sepolcro: sia Maria all’inizio della vita di Gesù, che le donne alla fine del Vangelo, sono il simbolo di ogni credente chiamato a cercare il Signore, nonostante la fatica e a volte l’incapacità di trovarlo. Dio infatti si fa trovare. Maria e Giuseppe cercano Gesù nella carovana e le donne lo cercheranno al sepolcro, a volte infatti cerchiamo Dio dove non è, lo cerchiamo nei luoghi scontati, dove sarebbe ovvio cercarlo. Dio invece ci sorprende. È là dove non penseremmo di trovarlo. Non è né nella carovana né nel sepolcro. Dio è altrove.

Maria e Giuseppe trovano Gesù in mezzo ai sapienti nel Tempio. È un’immagine che rievoca la figura biblica della Sapienza. Ciò che deve attrarre la nostra attenzione è che, nonostante questa sapienza, nonostante Gesù sia la Sapienza, la sua risposta è l’obbedienza: «Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso». Anzi, diremmo che l’obbedienza è il modo in cui Gesù esprime la sua sapienza.

Maria non è solo figura del credente che cerca, ma, insieme a Giuseppe, condivide la fatica e l’inquietudine di ogni genitore davanti ai comportamenti indecifrabili, e a volte irritanti, dei figli. Maria si rivolge a Gesù non con un rimprovero, ma con una domanda: chiede di capire, prima di giudicare. Non affronta Gesù da sola, ma coinvolge Giuseppe in un’alleanza educativa: tuo padre e io ti cercavamo. A volte, i comportamenti difficili dei figli rischiano di spezzare la relazione tra i genitori e indeboliscono il loro intervento educativo. Giuseppe rimane in silenzio. Lascia parlare Maria. Forse per un accordo previo tra loro o perché è consapevole che in quel momento per lui è meglio tacere.

La risposta di Gesù è difficile da comprendere per i suoi genitori, ma, attraverso questa risposta, il Vangelo ci dice che la prima parola pubblica di Gesù nel Vangelo di Luca è “Padre”. Ci colpisce perché sarà anche la sua ultima parola. Tutta la vita di Gesù è ricompresa dall’inizio alla fine dentro la sua relazione con il Padre.

Anche in questa incomprensione, che spesso caratterizza la vita del genitore, Maria e Giuseppe continuano a stare accanto al figlio nella quotidianità della vita, pur sapendo che ci sarà un giorno in cui dovranno farsi da parte per lasciare che le folle affaticate e senza guida prendano il loro posto. Come Maria ha generato Gesù nella sua nascita, così, successivamente, sarà la Parola che lo genererà alla vita adulta.

Ora che le recite di Natale sono finite, possiamo tornare a confrontarci con la quotidianità della vita, a volte faticosa, certo, ma più vera. Non a caso, il tempo della quotidianità per Gesù con i suoi genitori è il tempo di Nazaret, un tempo su cui scende il silenzio, forse perché le cose quotidiane e importanti della vita non hanno bisogno di diventare sempre uno spettacolo.

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Testo

Lc 2, 41-52

Leggersi dentro

Anche per me il tempo di Natale è stato un po’ come una recita?
(per i genitori) Come affrontiamo i comportamenti a volte indecifrabili o irritanti dei figli?

 

TAG: gaetano piccolo, Natale
CAT: Religione

2 Commenti

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  1. naciketas 8 anni fa

    Sono duemila anni che i preti recitano la parte dei buoni. E nemmeno solo a Natale.

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  2. massimo-crispi 4 anni fa

    Dipende da quanto si concede ai figli, da quanto tempo si sta con loro, da quanto li si segue e controlla dopo aver dato loro lo smartphone in mano per farli “giocare”, da quanto si seguono nei compiti scolastici, da quanto tempo si dedica per porre loro domande, per far fare loro delle esperienze, sempre sotto sorveglianza anche se non incombente, da quanto tempo si dedica per ascoltare musica insieme, cercando di raccontarla, o di vedere dei film, o di legger loro dei libri a voce alta, o di farli leggere a loro, che non siano solo le parabole dei vangeli o le storielle edificanti a sfondo sacro, da quanto tempo si impiega per insegnar loro a fare delle cose, come oggetti, o cucinare, o coltivare delle piante, o fotografare, o disegnare, o andare a trovare persone disabili e aiutarle, o mille altre attività. Da quanto tempo si sta con loro a parlare e riconoscere le costellazioni nelle notti d’estate in montagna o lontano dalle luci, da quanto tempo invece i figli dedicano ai loro videogiochi autoreferenti.
    Forse, allora, potrebbero esserci meno comportamenti “indecifrabili o irritanti dei figli” e non sarebbe così allarmate e necessario affrontare quei momenti. N’est-ce pas?

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