Contro la folla degli imbecilli petalosi: uno sfogo un po’ snob

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26 Febbraio 2016

Qualcuno ha twittato che il conio della parola “petaloso” da parte di un decenne ferrarese nel giorno in cui Umberto Eco riceveva il suo ultimo, laico saluto, rappresenta “un saluto perfetto” all’insigne semiologo. A me pare che le due cose siano sprovviste di particolari legami, ma magari a Eco – che, da avido cultore della materia pop, aveva giustamente benedetto la “peanut” Sally Brown che rendeva le “t” dei pali del telefono – l’iniziativa del bimbo Matteo avrebbe effettivamente fatto piacere.

E’ invece sul corollario, sul sovreccitato e festante brusio “social” che ha seguito l’approvazione del neologismo da parte dell’Accademia della Crusca, che Eco avrebbe probabilmente avuto da ridire. O comunque ho da ridire io, nel mio piccolissimo, ricordando le “legioni di imbecilli” che proprio i social, secondo Eco, hanno tristemente legittimato alla parola e persino all’approvazione.
Perché l’“affaire petaloso” mette in evidenza quanto ormai nessun ambito sia al sicuro dalla grossolana e ruminante dittatura della folla, quanto – e quanto velocemente – la maggioranza vinca a mani basse in ogni contesto.

Un meme che gira sui social mostra un siciliano che si chiede perché, a loro che hanno inventato “omertoso”, nessuno abbia mai fatto tante feste. Perciò è d’uopo partire da un semplice assunto: “petaloso” non è un aggettivo, non è un vocabolo, non esiste. Come “scendere” non diventa transitivo semplicemente perché una massa sempre più folta di bifolchi, pomello dell’uscio tra le mani, informa il resto dei rispettivi nuclei familiari che “scende il cane”. E come non troveremo mai “nn” e “ke” nel Devoto-Oli solo perché mandrie di ragazzini con troppo tempo libero – ma mai abbastanza per sprecarsi a digitare una vocale in più – inonda i propri sms di simili scorciatoie.
Discorsi retrogradi? No, ragionamenti necessari. E la prima a dover ripassare la funzione dell’errore e delle regole nell’insegnamento è la maestra del bimbo Matteo, che compie il peccato originale da cui sboccia tutta questa storia definendo quello del pargolo un “errore bello”. Toh, che fortuna avere novelli Rodari tra le fila mai troppo esigue degli italici docenti! Peccato che un “errore bello” sia di per sé una contraddizione in termini, benché si possa in astratto apprezzare la grammatica della fantasia della signora (già mi vedo i piccoli salire sui banchi uno ad uno recitando “Oh capitana, mia capitana!”). E l’Accademia della Crusca, che baratta senza tante storie l’ormai obsoleta autorità per una più contemporanea gradevolezza “da social network”, non fa che rafforzare lo sbaglio.

Après cette, le déluge; o, se preferite che non vengano scomodate illustri teste coronate, da lì in avanti si sono aperte le gabbie. Sui social, Twitter in testa, è stato un continuo chiosare sulla sorprendente, quasi scioccante beltà di quell’inedito non-neologismo. Tutti – da Donato Carrisi ai Negramaro, passando per l’inevitabile Matteo Renzi – a pontificare su quanto fosse più bello un mondo #petaloso, su quanto il dolce appena sfornato fosse #petaloso, su quanto la sola esistenza di quel vocabolo rendesse più #petalosa la giornata (ma che dico, la settimana!) e via petalando. I quotidiani online di ogni area od orientamento hanno messo in campo i propri migliori notisti per raffazzonare sulla vicenda pezzi che ondeggiavano tra “la fantasia al potere” e Il Piccolo Principe. I social media manager di qualsiasi brand hanno regalato ai propri neuroni un day off buttandosi in modo ugualmente banale sul vocabolo. Il 24 febbraio 2016 l’economia italiana ha continuato ad andare a pallino, i diritti civili hanno continuato a snellirsi, i migranti hanno continuato a crepare silenziosamente nei nostri mari… ma tutto, per fortuna, ci è apparso più #petaloso.

Siamo in balia della folla, della maggioranza, del gruppo che fa la voce più grossa. E ne stanno gradualmente diventando preda anche – come dicevo all’inizio – ambiti sacri, che dal senso comune non dovrebbero essere sfiorati, perché ad esso forniscono regole e basilari modalità d’espressione. Quella stessa folla che sempre sui social è passata prima a chiedere, poi quasi a pretendere, l’adozione del neologismo del decenne ferrarese all’interno dei vocabolari, rinnegando anche il succo stesso della risposta data dall’Accademia della Crusca alla maestra. La folla che Gustave Le Bon stigmatizzava sconsolato già nel 1895 è oggi una sorta di perenne, occhiuto e intransigente quinto potere, che si autolegittima beandosi della propria assenza di ragionamento e mediazione. Arrogandosi peraltro sempre più spazio nel nome di un giacobino istinto antisistema “senza se e senza ma”, che parte dal facile bersaglio della politica ma arriva a dubitare di qualsiasi istituzione costituita, financo la stessa Accademia, costretta a dover precisare che no, la lingua non evolve perché un bel giorno un hashtag diventa trending topic, è un po’ più complesso di così.

Ed è infine facile, partendo dal piccolo aneddoto del neologismo “petaloso”, passare a riflettere su fenomeni come le bufale in rete, il successo – adeguatamente monetizzato – dei siti di petizioni online o di click-baiting in stile Tze Tze, per giungere poi a subodorare le logiche sociologiche e comunicative che ratificano trascinatori – o, per dirla con Le Bon, meneurs des foules – quali Tsipras, Le Pen o Grillo. Ma questa è decisamente un’altra storia, che esula da questo sfogo di penna un po’ snob.

Per il solo fatto di far parte di una folla, l’uomo discende di parecchi gradi la scala della civiltà. Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è un istintivo, per conseguenza un barbaro. Egli ha la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi. Si fa simile ad essi anche per la sua facilità a lasciarsi impressionare da parole, immagini, e guidare ad atti che ledono i suoi interessi più evidenti. L’individuo della folla é un granello di sabbia in mezzo ad altri granelli di sabbia che il vento solleva a suo capriccio.” (Gustave Le Bon, Psicologia delle Folle, 1895)

TAG: accademia della crusca, Cultura, lingua italiana, Matteo Renzi, petaloso, social, twitter, Umberto Eco
CAT: costumi sociali, Internet

Un commento

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  1. enrica-noseda 8 anni fa

    Concordo e pensi che, chi esulta per il conio del termine petaloso si meriti un peto. Invce mettere Tsipras a livello di Grillo trovo che denti uns totale mancanza di comprensione in tema di Politica, visto che mentre Grillo ha puntato ad una NON collocazione, Tsipras, come anche Poderoso hanno una chiara collocazione che punta a mettere al centro della Politica la Pari Dignità delle Persone

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