Vacanze senza compiti? Quando a scuola comanda papà

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16 Settembre 2016

Succede che un papà confezioni una letterina ben fatta e ben scritta, con impeccabile grafia, ad uso e consumo dei social network. Ci teneva a far sapere al mondo che lui, a suo figlio, i compiti delle vacanze non li fa fare. Perché ha deciso così. Perché una pausa è una pausa. Fine delle discussioni. E il mondo ha risposto – puntualmente – rilanciando a mezzo social la piccola provocazione. L’epistola, in teoria indirizzata agli insegnanti del ragazzino, voleva chiaramente essere virale. E virale è diventata in un momento. Basta poco, oramai. E basta poco per avere il consenso della gente, perché alla gente piace quest’immagine di padre controcorrente, che contrasta le regole della “casta” (politici, poteri forti, tecnocrati o insegnanti, il succo è uguale) e che libera il figlio dalla schiavitù didattica, per goderselo da giugno a settembre a tempo pieno, esplorando i sentieri della vita mano nella mano. Anarchismo e romanticheria: successo assicurato. In tempi di “gentismo”, poi, la formula è vincente.

La lettera ai prof di Marino Peiretti

La lettera ai prof di Marino Peiretti

E invece, a dirla tutta, questa cosetta carina a forma di spot un certo fastidio lo muove. Intanto per un fatto estetico, di stile: più fricchettoni di così si muore. Quel profumo patinato di retorica on the road, di antagonismo soft in salsa borghese, di ribellismo edulcorato da figli dei fiori 2.0… Se non è orticaria, poco ci vuole.
E poi l’arroganza, dietro quella tenerezza di genitore fuori dagli schemi, migliore amico, complice e compagno d’avventure. L’arroganza gentile di chi non solo dice, ma soprattutto insegna – piano piano, sottovoce – che mettere in discussione una regola non è innanzitutto un fatto creativo, metaforico, mentale, di sfida con stessi e di cammino interiore, quanto una cosa assai più semplice, tipo quel vecchio slogan di guzzantiana memoria: “facciamo un po’ come cazzo ci pare”. In fondo, questo padre, cosa racconta al pargolo, mentre si fa bello con la rete, mentre veste i panni del contestatore buono, mentre rispolvera la faccenda della fantasia al potere? La solita storia: il sistema si combatte aggirandone le norme a cuor leggero. Il prof ritiene che qualche lettura, qualche esercizio, qualche ripasso, siano utili per non perdere il ritmo nell’arco di tre mesi? E chi se ne frega. Pedagogia domestica e sovranità familiare, questo ci vuole!
Del resto, dice il papà, tanti esperti concordano con lui: in vacanza è meglio non studiare. Chi siano questi esperti e chi quelli contrari, non è dato sapere. Ribellismo, a volte, fa rima con qualunquismo? Con populismo sicuro. Se a misura di tastiera meglio ancora.

Fausto Pirandello, Padre e figlio, olio su tavola, 1934

Fausto Pirandello, Padre e figlio, olio su tavola, 1934

E siamo davanti, disgraziatamente, a quella mutazione generazionale che ha visto docenti e genitori scoprirsi nemici: non più alleati di ferro, com’era tempo fa. A un certo punto i papà e le mamme hanno deciso che il soggetto da difendere era il figlio, a priori, e non l’autorità (che è, o dovrebbe essere, autorità intellettuale, simbolo dell’impegno e del dovere, riferimento morale). Difenderlo persino quando è un bullo, un poco di buono: “c’è da capirli, so’ ragazzi”. Una protezione compulsiva del cucciolo di casa, col rischio di farlo diventare – nel migliore di casi – un adulto viziato e rammollito; nel peggiore, un cittadino strafottente, prepotente, autoreferenziale, uno che sfida ogni giorno le regole sociali, il senso dello Stato, l’educazione sul posto di lavoro, i codici e i doveri di una comunità. Se vogliamo, è la stessa mentalità che scinde classe politica e società civile. Per cui, se la raccomandazione la cerca il cittadino è una povera vittima da capire, se la mazzetta la piglia il consigliere è “casta”, “schifo”, “tutti ladri” e “tutti a casa”. Mai che diventino, nella logica comune, due facce di una stessa perversione.
Cosa c’entri tutto questo con i compiti per le vacanze? Niente, magari. O forse moltissimo, se tale disobbedienza all’istituzione, avallata da mamma e papà, diventa metodo, misura, abitudine ed escamotage. Sempre.

Antonio Mancini, Il piccolo scolaro (le petit écolier) 1876 c. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay

Antonio Mancini, Il piccolo scolaro (le petit écolier) 1876 c. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay

Questo, però, non è e non vuole essere un discorso conservatore. Il tema non è non contraddire mai, non provare a ribaltare l’ordine delle cose, non prendere strade nuove ed inattese. Sarebbe un discorso che uccide ogni intuizione artistica, poetica, politica, intellettuale. Il tema è rispettare le leggi, intanto. Ma anche inventarsi una maniera per modificare lo status quo (a partire da un’urgenza, non per moda o per cliché). Stare dentro un sistema e sovvertirne dei piani significa cercare una via – certo più lunga e faticosa – che incida per davvero. Spingere più in là, spostare, riformare, generare nuovo senso e desiderio, nuove forme, sintassi, angolazioni. Insomma, una faccenda seria.
Ad esempio, studiare (anche) altro, studiare a modo proprio, scovare ciò che piace e sezionare quello che non piace fino a capovolgerne la percezione. E poi giocare, certo, e ancora giocare: davvero due ripassini estivi (non obbligatori, per carità, purché decida il prof.) impediscono di svagarsi e di riposare? Non si tratterà mica di una tesi di laurea o di un esame di ingegneria biomedica. E se i compiti sono davvero troppi e troppo pesanti, l’unica cosa da fare è parlarne con gli insegnanti, evitando di sminuirne l’autorevolezza davanti al ragazzino.
Troppo facile, allora, chiudere tutto e andare al mare. Troppo patetico consigliare la vita come maestra e la strada come palestra, che suona un po’ come l’insopportabile snobismo di chi bolla lo studioso come sfigato. Troppo pericoloso spedire a quel paese chi, in fatto di apprendimento, agli occhi del bambino rappresenta un punto fermo. E i bambini, di rifermenti, di simboli, di saldezza e di struttura, hanno bisogno tanto quanto di esperienze e di immaginazione.
Grave, infine, stigmatizzare (e ancora sminuire) il docente che insegnerebbe “nozioni”, preferendogli il genitore che insegnerebbe “a vivere”. Peccato che la nozione c’entri poco o nulla con l’avventura culturale, la quale passa – anche, ma non solo – dai compiti in classe, dalle odiate interrogazioni, da un paio di libri da leggere in estate. Ed è l’unica cosa che resta, della scuola: l’esercizio critico, la ginnastica concettuale, la visione, la curiosità, l’apertura, la passione. E la disciplina, pure. Alleata preziosa di domani, sul piano esistenziale e professionale. È qui che la cultura diventa chiave per decifrare il guazzabuglio delle cose concrete e immateriali; è qui che si impara, nozioni a parte, a ricavarsi opinioni autonome, autentiche, disallineate. E a perseverare. Studiare, in questo senso, rende liberi davvero. Altro che tre mesi (pur preziosi e sacrosanti) di ferie.

[in copertina: Tadeusz Kantor, La classe morta]

TAG: figli, genitori, scuola, social network
CAT: Media, scuola

9 Commenti

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  1. evoque 8 anni fa

    Confessione: non ho mai fatto, o fatto molto parzialmente, i compiti delle vacanze (delle elementari e delle medie) tanto non venivano mai corretti, o venivano corretti solo pochi esercizi, i primissimi giorni. Al massimo mi riducevo, a ridosso della ripresa delle lezioni, a buttare giù in tutta fretta qualche esercizio giusto per accontentare i miei genitori. Che, per la verità, non mi stavano con il fiato sul collo. E per questo siano benedetti in eterno! Poi, a scuola riuscivo più che bene… E anche quando insegnavo – per quattro anni – ero molto parsimonioso con i compiti a casa: il lavoro più importante si fa in classe, ciò che si assegna a casa è una specie di raccordo fra una lezione e l’altra e un piccolo impegno per lo scolaro volto a insegnargli il senso del dovere, dell’impegno. Detto questo, trovo che la lettera del genitore sia sbagliata: un conto è il bambno / ragazzo che fa il furbetto e cerca di sottrarsi ai suoi doveri (mi auto-assolvo…), ben altro è il comportamento di un genitore che “giustifica” anzi incoraggia il proprio figlio a non rispettare l’autorità dell’insegnante. Forse la ribellione del genitore è nata dal fatto che gli insegnanti avevano caricato il figlio con eccessivi compiti – succede, succede e anche spesso -, ma allora a mio modo di vedere il genitore avrebbe dovuto far svolgere i compiti e DOPO scrivere quella lettera.

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  2. helga-marsala 8 anni fa

    ciao evoque, sono d’accordo con te. Non penso che i compiti per le vacanze siano vitali, ma possono servire a mantenere l’allenamento. Purchè non siano troppo gravosi, certo. Il punto però qui è non screditare l’insegnante e con lui l’istituzione scolastica, il senso del dovere, il rispetto verso qualcuno che è punto di riferimento. E poi è assurdo ridurre la scuola a una faccenda di “nozioni”, celebrando la cosiddetta “università della vita”… Non è questa l’immagine dello studio che bisognerebbe dare ai figli, credo. E non è questo il senso (serio) della contestazione. Infine, come dici tu e come ho scritto io stessa, se c’è un problema ne parli con i professori, ma non mi scavalchi, non fai di testa tua. E’ un messaggio molto diseducativo.

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    1. evoque 8 anni fa

      Purtroppo, come anche tu accennavi, è cambiato il rapporto fra genitori e insegnanti. Con i primi che parteggiano sempre per i figli. Una mia amica, che insegna inglese alle superiori, mi ha recentemente raccontato un significativo episodio al riguardo: un’alunna non studia, l’insegnante le dà una nota da far firmare ai genitori. La nota non viene firmata. La mamma viene convocata a scuola. Beh, per farla breve, la mia amica ha detto che avrebbe volentieri preso a schiaffi la mamma.

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  3. danielefisarmonica 8 anni fa

    I compiti delle vacanze sono una pura idiozia didattica, lo dico da professore. Questo padre ha ragione da vendere, anche se è vero che spesso i genitori svolgono un ruolo abbastanza negativo nel confronto scuola famiglia. In questo caso però ha una sacrosanta ragione. Almeno per come vedo io le cose. Da ragazzino non ho mai fatto i compiti delle vacanze e sono sempre andato molto bene a scuola e ora, da professore, ho acquisito consapevolezza del perché questo sia avvenuto: per rendere al meglio è importante saper staccare e per crescere è fondamentale cogliere le occasioni per nutrirsi di cose che la disastrata scuola italiana non è in grado di fornire. Non c’è nulla di fricchettone nella lettera di questo padre ma cose sacrosante.

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    1. helga-marsala 8 anni fa

      Il tema infatti non è “compiti sì”/”compiti no”.

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  4. filomeno-cafagna 8 anni fa

    E se a dirlo invece è un docente? Allora il giudizio critico cambia completamente. Beata coerenza!
    http://www.ilrestodelcarlino.it/fermo/cronaca/compiti-vacanze-liceo-fermo-1.1041280

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  5. evoque 8 anni fa

    Rileggendo la lettera, ho notato che in pratica il papà ha fatto da chioccia al figlio per tutto il tempo estivo: abbiamo fatto lunghe gite in bici, l’ho sponsorizzato incoraggiandolo nella sua attività primaria, abbiamo costruito la sua scrivania, abbiamo…abbiamo… Ma questo figliolo ha passato qualche istante senza l’incombente presenza del genitore (di amici non si parla proprio e il papà non può essere considerato alla stregua di un amico, per evidenti ragioni)? Il tempo delle vacanze serve, infatti (o almeno dovrebbe), al ragazzo che sta crescendo anche per sapersi gestire il tempo libero in assenza delle incombenze scolastiche presenti durante l’anno.Invece dalla lettera pare che il tempo glielo abbia organizzato il genitore. Ma la personalità di un ragazzo deve essere lasciata libera di esprimersi. Anche commettendo errori, oziando per esempio. Io pur volendo molto bene ai miei genitori – ho avuto un’ infanzia davvero felice – non avrei sopportato la loro presenza incombente durante tutto il tempo libero delle mie vacanze. E’ fondamentale crescere ragazzi che sappiano essere autonomi nella capacità di esprimersi. Se no come può svilupparsi una personalità autonoma? Poi non stupiamoci se li vediamo girare come degli zombie alla ricerca dei Pokemon….

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  6. nadia-giusto 8 anni fa

    I compiti, estivi e non, li ho sempre svolti con assoluto rigore, ma la delusione di vedere che manco venivano corretti era enorme: ma quell’errore che sicuramente si trovava nei miei esercizi chi l’avrebbe corretto? Condannata a ripeterlo all’infinito mi rassegnavo, così era/è la scuola e mia figlia me lo confermò a suo tempo. Mi sento più vicina al citato genitore che all’autorità dell’insegnante (e non perché sia una rivoluzionaria) anche perché io stessa, insegnante per altri versi e genitrice di una figlia che qualche problemino l’ha avuto, ho imparato molto di più fuori che dentro la scuola, scegliendo quello che più mi interessava (grazie alla mia grande motivazione che mi spingeva a studiare), centrando sempre l’obiettivo, soprattutto capendo che le cose importanti che la scuola poteva/doveva a suo tempo insegnarmi, ahimè, non me le aveva trasmesse. Forse qualcosa andrebbe cambiato magari il prima possibile… Mi sono sempre chiesta il perché di questa situazione: incompetenza degli insegnanti? Senza far di ogni erba un fascio per molti sicuramente. Poca passione/parcheggio di laureati/insegnanti per caso che di didattica non ne sanno proprio nulla? Anche. L’idea molto romantica, che ancora ci appartiene, che tutto passa attraverso la sofferenza (se non soffri molto e non fatichi tanto, non otterrai mai nulla!!!), ha sicuramente il suo peso. Il fatto che, rispetto ai miei tempi, da questi bambini/ragazzi si pretenda (in primis i genitori), che debbano fare sport perché fa bene, sappiano una lingua (o due???) perché serve, magari frequentino una serie di laboratori di cui adesso si fa un gran parlare per sviluppare creatività e manualità fine, un po’ d’informatica perché fondamentale, imparare pure a suonare uno strumento e tutto quasi sempre al di fuori dell’orario scolastico, può dar l’idea di quanta fatica (quella di cui sopra), quanto impegno e carico di lavoro, gravi sulle spalle di tutti gli studenti. Mi verrebbe da dire che tutte queste attività bellissime potrebbero opportunamente entrare nell’orario scolastico, ma mezza giornata non basterebbe, ce ne vorrebbe una intera (il famoso tempo pieno), i tre mesi di vacanza estive potrebbero diventare uno, visto che il programma sarebbe arricchito di tante, belle ed interessanti esperienze con buona pace di genitori ed insegnanti ma soprattutto degli allievi che finalmente troverebbero interessante e divertente andare in una scuola più vicina alle loro esigenze e personalità. Parrebbe quasi un lavoro a tempo pieno meritevole di attenzione, di una programmazione attenta edi figure specializzate… Ma allora i costi aumenterebbero a dismisura e in un paese dove la priorità è quella di tagliare mal si combina con quanto appena detto. Ma allora un genitore che vedesse l’inutilità di certi meccanismi instauratisi, che intuisse la possibilità che questo generi un rifiuto per la scuola (mia figlia lo fece a suo tempo…), sarebbe costretto a correre ai ripari ed a trovare delle strategie che tamponino/medino delle situazioni potenzialmente rischiose per il proprio figlio perché questo è il compito del genitore, aiutare il proprio figlio a crescere nel miglior modo possibile. Sicché mi risulta troppo semplice pensare alla sola autorità dell’insegnante che viene sminuita, è tutto il sistema che andrebbe rivisto perché così com’è proprio non funziona. Nadia Giusto

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  7. alfio.squillaci 8 anni fa

    Splendido pezzo. Il passo. ===”Se vogliamo, è la stessa mentalità che scinde classe politica e società civile. Per cui, se la raccomandazione la cerca il cittadino è una povera vittima da capire, se la mazzetta la piglia il consigliere è “casta”, “schifo”, “tutti ladri” e “tutti a casa”. Mai che diventino, nella logica comune, due facce di una stessa perversione.=== E’ già tutto raffigurato in un’analisi condotta dall’antropologo Carlo Tullio-Altan (“La nostra Italia”) che valutando i giovani del Sessantotto diceva che il loro ribellismo, anche quello nutrito di dosi massicce di Marcuse, era tutto inscritto nella “morale albertiana” (da L.B.Alberti autore dei “Quattro libri della famiglia”, ossia una sorta di familismo amorale antelettera) in cui il ribellismo giovanile antiautoritario era non altro che “facciamo come ci pare” , opporre il vecchio vizio italico del farsi i fatti propri e che tutto il resto (sbrigativamente chiamato “autorità”) andasse alla malora. Quanto di questa “morale albertiana” sia rimasta nello spirito pubblico italiano è tema di osservazione di tutti i giorni, piccoli fatti come questo la fanno riaffiorare come la “base morale” ampiamente condivisa dai connazionali. Brava , bella penna!

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