VANESSA WINSHIP, UNA PICCOLA MOSTRA PREZIOSA A MILANO

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8 Gennaio 2015

Raccontare la Storia indagando i corpi e i visi di chi la Storia l’ha vista e subita nell’intimo del suo quotidiano. Capire, attraverso la fotografia, che cosa significa vivere una guerra, una dittatura, una rivoluzione, che cos’è la miseria, la fuga, la perdita dei tuoi sogni e di ciò che chiamavi casa.

È quello che prova a fare Vanessa Winship, fotografa inglese che nel 2011 ha vinto il premio Henri Cartier-Bresson per il suo progetto sui segni del declino del sogno americano (She dances on Jackson. United States).

Una sua personale è in mostra in questi giorni, fino al 15 febbraio, alla Fondazione Stelline di Milano. Si tratta di una preziosa occasione per conoscere il lavoro di questa donna schiva, che ha vissuto per anni a Belgrado, ad Atene e poi a Istanbul e che ha lavorato per lo più nei Balcani, nel Caucaso, in Anatolia, fino ad arrivare recentemente negli Stati Uniti e nella regione di Almerìa in Spagna. Tutti luoghi dove ha potuto indagare i temi a lei più cari: le frontiere, l’identità, la memoria, le disillusioni, i segni che la storia lascia nel paesaggio e nei corpi umani, che diventano paesaggio a loro volta.

Ecco allora l’immagine di uno sguardo di bimbo sorpreso oltre un vetro dove si riflettono uniformi militari, quella di un passo veloce di donna che si fa corsa affannata, di un tatuaggio dove non ti aspetti che sia, di un’acconciatura vezzosa nonostante tutto, di una gonna di tulle indossata da un gruppo di bambine che danzano in una stanza squallida. O anche la foto di un cumulo di plastiche abbandonate, di un molo deserto, del volo grigio di un gabbiano, di un monumento in rovina, di cerchi che si rincorrono sull’acqua di un lago freddissimo, dopo che un sasso vi è stato lanciato.

Tutti gli scatti della Winship, in bianco e nero, rivelano una profonda malinconia, un senso di partecipazione sentita, ma mai invadente, agli eventi che hanno segnato – spesso in modo impietoso – i luoghi che lei ritrae. È un atteggiamento che risulta evidente anche nelle riflessioni con cui la fotografa accompagna i suoi lavori. «Nelle pianure spazzate dalla polvere dei Balcani meridionali, gli albanesi del Kosovo si sono trovati di fronte un altro destino, sotto forma di un conflitto con i loro vicini serbi. Ciò che resta delle sue industrie si staglia goffamente, scricchiolante e arrugginito, talvolta eruttando il suo veleno in un gesto di sfida alla terra che occupa».

La malinconia pensosa della Winship si vena di dolcezza quando il suo obiettivo si concentra sulle persone. I suoi ritratti commuovono e fanno venire voglia di saperne di più di ciò che quei visi lasciano intuire. Un esempio struggente sono le immagini delle studentesse che la fotografa inglese ha ritratto nei villaggi e nelle città dell’Anatolia, bambine e ragazze mandate a scuola per la prima volta, impettite e un po’ impaurite nei loro grembiuli tutti uguali, così diverse dalle nostre ragazzine condizionate dai selfie quotidiani. «Molte cose mi hanno colpito nella realizzazione di queste immagini: la serietà nel loro atteggiamento di fronte all’obiettivo, la loro fragilità, la loro semplicità, la loro grazia e la loro somiglianza una con l’altra, ma più di tutto mi ha colpito la loro completa mancanza di pose studiate».

I ritratti della Winship ricordano quelli di Diane Arbus, ma più per la singolarità dei visi dei soggetti al centro dell’inquadratura che per lo sguardo, che nella fotografa inglese si riempie di una tenerezza sconosciuta alla sua collega americana.

Mentre cammino tra queste foto, viaggio in terre mai visitate e mi sembra di sentire il freddo di quella nebbia, il profumo puzzolente di quel mare grigio, e vorrei restare in silenzio di fianco a quelle bambine o ascoltare le loro risate sorprese, fare domande alla donna che scappa in bilico sul molo, il figlio tra le braccia che sembra un gesù bambino di gesso. Mi muovo nella sala ed è come se anche le foto si muovessero con me, i gabbiani, i rami, mentre quei visi mi guardano in cerca forse di comprensione e complicità. E intuisco, proprio come sperava la Winship, che cosa significa vivere una guerra, una dittatura, una rivoluzione, che cos’è la miseria, la fuga, la perdita dei sogni e di ciò che chiamavi casa. 

TAG: fotografia, milano, vanessa winship
CAT: Fotografia

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