“Rosso cadmio per Caravaggio”, Omar Galliani alle Gallerie d’Italia

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7 Gennaio 2018

Caravaggio ha smesso quasi subito di suggestionare la pittura. Nel 1630, due decenni dopo la sua morte, in Italia era pressoché dimenticato. Nessuno dipingeva più alla sua maniera. Anche pittori che inizialmente avevano mutuato il suo approccio alla realtà, come il francese Simon Vouet e l’asconese Giovanni Serodine, probabilmente il più vicino allo spirito del maestro, avevano preso altre strade, l’uno quella del classicismo, l’altro intento a sperimentare nella parte terminale della sua brevissima, bruciante carriera gli esiti della pittura di tocco.

Nei secoli successivi, stile, tecnica e intenzione della pittura dal vero vennero completamente rimossi e il nome di Caravaggio finì per essere coinvolto nel giudizio spregiativo assegnato al Seicento. Bisognerà aspettare Bernard Berenson e Roberto Longhi per una piena rivalutazione storica e critica del Merisi. Che lasciò però sostanzialmente indifferenti gli artisti contemporanei.  I quali hanno continuato per lo più a guardare a Caravaggio soprattutto come a un modello per il rapporto tra la biografia e l’opera, talvolta per il portato di novità in sé della sua opera, per il contenuto di verità che conteneva la sua pittura. Molto raramente come un esempio figurativo e compositivo. Negli anni della riscoperta della sua maniera, per fare l’esempio più eclatante, nessuno dei pittori di Novecento Italiano, la corrente raccolta attorno alla figura di Margherita Sarfatti, guardò mai con interesse a quel maestro oscuro, la cui figura era ancora chiusa nel cliché del maledettismo, assimilata indebitamente all’“età sudicia e sfarzosa”. Non ci fu, per dire, un artista che guardò a Caravaggio come fece Sironi con Masaccio. L’interpretazione che diede del personaggio del Merisi Amedeo Nazzari nel film “Caravaggio pittore maledetto”, diretto da Goffredo Alessandrini nel 1941, finì probabilmente per allontanare ancora di più gli artisti.

Amedeo Nazzari e Chiara Calamai nel film “Caravaggio pittore maledetto”.

Riconosciuto grande innovatore da tutti, Caravaggio fu studiato e copiato soprattutto da scenografi, fotografi e direttori della luci. Geni come Vittorio Storaro pagano esplicitamente il loro tributo al Merisi, ma di caravaggista la pittura contemporanea non ha nulla. Persino gli artisti amati da Giovanni Testori inseguono consapevolmente altre traiettorie, dialogando coi colossi del passato, da Rembrandt a Soutine, dallo stesso Serodine a Velazquez a El Greco e Frans Hals. Quelli che considero i tre maggiori “pittori puri” della seconda metà del Novecento, Lucian Freud, Francis Bacon e Varlin, citano solo accidentalmente e marginalmente la sua opera e attitudine. Nelle ultime generazioni, solo alcuni pittori che si dedicano a una riproposizione calligrafica degli antichi maestri, come Roberto Ferri, sono esplicitamente influenzati da Caravaggio. In maniera episodica la sua lezione ritorna in artisti più attenti alla contaminazione dei linguaggi contemporanei, come in Nicola Samorì.

Nicola Samorì, “I limiti del controllo”, olio su rame 2012, 100 x 100 cm. 

Può dunque sorprendere che un artista come Omar Galliani si sia avvicinato a una sfida così complicata con un approccio ambizioso come quello dell’opera site specific “Rosso cadmio con Caravaggio”, ospitata all’interno di un progetto espositivo curato per le Gallerie d’Italia da Raffaella Resch, in quella che si pone di fatto come una riflessione monografica che accompagna la mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri”. Sorprendente perché Galliani viene per così dire da un’altra tradizione, quella del disegno, che si riconnette alla sua terra, all’Emilia di Correggio, di Parmigianino, del Primaticcio e di Guercino, e da quella lezione prende le mosse per ipotizzare una sopravvivenza classicista di modi, tecniche, intenzioni, all’interno di un ambito che non rinuncia a priori a dialogare con l’arte contemporanea, anche attraverso proposizioni concettuali.

Galliani ha cercato di individuare un minimo comune denominatore tra due prassi che partono da presupposti differenti: da una parte il realismo del Merisi e dall’altra il recupero della figurazione come rottura della sterilità antiestetica del concettuale tout court, che è un po’ la cifra del suo lavoro. Per farlo ha scelto come terreno operativo alcuni problemi universali della pittura: spazio, luce, figura. La centralità del disegno apparentemente lo allontana da Caravaggio, perché il Merisi non ci ha lasciato fogli preparatori, il che resta indicativo di una prassi sostanzialmente anti-accademica, che rifuggiva dal controllo formale tipico di chi procede per schizzi, disegni, bozzetti, come strumenti di messa a punto e verifica progressiva della stesura finale sulla tela.

Omar Galliani nel suo studio mentre lavora al ciclo per le Gallerie d’Italia.

Bisogna però stare attenti a non fraintendere Galliani, a non equivocare cioè quella che è la sua concezione del disegno.  Per l’artista emiliano la grafica vive dentro alla pittura e ne occupa la parte preponderante. Galliani ha reinventato in termini funzionali, estetici e finanche di formato il disegno. La scala “amplissima, quasi monumentale”, come la definisce Raffaella Resch, che il maestro emiliano applica a una prassi abitualmente destinate a formati ridotti ed esiti provvisori, di fatto proietta questa tecnica in un’altra dimensione, in cui il tratto della grafite dà corpo da solo all’immagine, con straordinaria forza materica, anche in virtù dell’abilità con cui interagisce col supporto. “Il nodo del legno, la sfumatura brunita, oppure la campitura chiara vengono risolti all’interno della figura, appena sfiorati dalla matita, o solo contornati”, scrive ancora la Resch nel contributo “Il rosso e il nero: variazioni su Caravaggio”, tra i saggi pubblicati nel catalogo (pubblicato da Intesa San Paolo) che accompagna l’intervento di Galliani alle Gallerie d’Italia.

Resta il fatto che Caravaggio lavora sulla realtà, anche quando si misura con l’evento storico, persino se deve raccontare un episodio delle Sacre Scritture. Alla base delle sue scelte c’è sempre una domanda relativa ai fatti e alla loro plausibilità. “Com’è andata davvero?”, sembra chiedersi. E dunque, “Come lo posso rappresentare?”, perché appaia il più possibile verosimile, aderente alla realtà non solo per la capacità di imitare la natura e gli affetti, ma anche il movimento, la relazione tra psicologia e gesti. Galliani invece in qualche modo si è sempre occupato dell’archetipo, delle forme perfette che trascendono e trasfigurano la realtà, la fanno partecipe di una bellezza ideale, che potrà apparire forse anacronistica, ma risponde a un’aspirazione alla classicità che probabilmente oggi il disegno riesce a evocare con più forza e immediatezza della pittura.

Omar Galliani, “Grande disegni italiano”, matita su tavola, 2005, 500×623 cm.

Definite queste costanti di fondo, va detto che per Galliani Caravaggio è un punto di riferimento iconografico imprescindibile sin dagli Anni Settanta. La citazione di brani di composizioni del Merisi consente all’artista di Montecchio di mettere a punto precocemente un vero e proprio dispositivo, che gli consente nel 1977 in opere come “Pathos” e “Apparizione” di operare contemporaneamente con disegno, collage e fotografia, in una scomposizione concettuale che passa prima per una riduzione dell’immagine alle dimensioni di una cartolina, per poi estrapolarne un dettaglio che viene fatto esplodere in dimensioni letteralmente fuori formato, secondo un procedimento che la Resch definisce “un doppio zoom”.  Allo stesso modo in “Dalla bocca e dal collo del foglio” (ancora del 1977), opera su carta presentata all‘International Culturel Centrum di Anversa, tentava di utilizzare un dettaglio del “Sacrificio d’Isacco” all’interno di un oggetto che prevedeva un foglio srotolato a muro con, alla base del campo visivo, accanto a uno strappo della carta, un vetro scheggiato, come nel tentativo di rappresentare il dramma utilizzando disegno e forza auto-evidente della materia.

Omar Galliani, “Dalla bocca e dal collo del foglio”, matita su carta, vetro, 1977, 200×140 cm, dettaglio.

 

Nel 1999 Galliani ha realizzato un trittico intitolato “Breve storia del tempo” in cui invece il riferimento a Caravaggio è squisitamente luministico. L’intenzione è di tipo descrittivo, mentre la composizione sembra cavata da un sogno. Quel che conta è la capacità di disegnare uno spazio in cui i corpi e gli oggetti abbiano una consistenza simile alla realtà aumentata, per la maniera in cui la matita prima ne individua la superficie e poi ne enfatizza il valore tattile. La donna rappresentata per la Resch è Lena, amante e modella del Merisi. L’idea resta plausibile anche a fronte dell’anacronismo evidente nell’abito della ragazza,  in quanto la modella corrisponde a sua volta, come tutte le creature che popolano tavole e fogli di Galliani, a una dimensione ideale. Possiamo considerarla in tal senso al calco platonico della Lena del mondo delle idee, precipitata in una realtà che somiglia alla nostra e però trattiene con essa un basso intento comunicativo, proprio come la dimensione onirica, che la lega al teschio, ricorrente nel Merisi e simbolo scoperto di vanitas, a cui viene contrapposto il giglio, ripreso dalla copertina di una pubblicazione di botanica. Che è un altro dei giochi persistenti del pittore emiliano: convocare un brano di verità, con il suo portato di casualità e contingenza, un’osservazione strappata a un taccuino, dentro a una composizione che vive in un altro tempo e spazio, dove gli oggetti esistono esclusivamente come rappresentazione e allusione al bello.

Omar Galliani, “Breve storia del tempo”, trittico, matita su tavola, 1999, 251×552 cm. 

Questo percorso retrospettivo è di fatto posto a introduzione dell’installazione “Rosso cadmio per Caravaggio”, che Galliani ha realizzato come riflessione sul “Martirio di Sant’Orsola” e che si pone come un ciclo dai forti caratteri site specific, strutturato su di una scansione ritmica di elementi che mirano a raggiungere l’ampiezza d’impaginazione delle grandi opere del Merisi, quelle di Roma e Malta, all’interno di una rarefazione compositiva che diventa una vera e propria partitura monocromatica, giocata sulle alternanze del nero e del rosso. Da una tavola che è la matrice della sequenza scaturiscono un dittico e un trittico. “Galliani propone la scena del martirio divisa in quinte che ci permettono di diventare da spettatori ad attori, di muoverci in mezzo al dramma e percepirne quell’istante in cui la freccia veloce trafigge il petto di Sant’Orsola e lei china il capo, in un moto di sorpresa prima che di dolore”. L’utilizzo del rosso cadmio vuole esprimere proprio quel picco d’intensità emozionale: “..la forza del lancio della freccia, il flotto di sangue caldo che esce dalla ferita, il colore del mantello che avvolge come un’onda la figura della santa e il baluginio dell’armatura di Attila di fronte a lei”.

Omar Galliani, “Rosso cadmio per Caravaggio”, trittico, matita, pigmento e anello d’oro,.  200×430 cm., Collezione Intesa Sanpaolo.

Caravaggio non conosceva la teatralità del barocco, che precede e si limita a sfiorare. Per molti versi il “Martirio di Sant’Orsola” è l’ultima scena d’azione non recitata della pittura italiana. Galliani in qualche modo mi pare avvertire nella sua dimensione “concettual-classicista” che teatro e azione non appartengono più al dispositivo della pittura, e che per tenervi dentro coerentemente una narrazione bisogna scomporla nei suoi caratteri primari, dividendo tempo, spazio, colore e figura in elementi distinti. Il disegno così conserva una funzione di documentazione e traccia, e lì si ferma, assegnando al pigmento la forza riecheggiante del correlato emotivo del dramma. Il ciclo del “Rosso cadmio” assume così la potenza evocativa di un gruppo scultoreo astratto. Per come cristalizza l’azione e la scompone nei suoi valori primari, trasformandoli in assoluti destinati a durare come pietre fuori dal “cinemascope” di Caravaggio.

TAG: Caravaggio, Gallerie d’Italia, Intesa San Paolo, Omar Galliani
CAT: Arte

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