“Caravaggio non uniforma il linguaggio della pittura italiana”

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4 Febbraio 2018

“Napoli, Genova e Milano a confronto/1610-1640”. Recita così il sottotitolo della mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e Nuovi Maestri”, che si pone come un tentativo di indagare la scena pittorica delle tre città, per verificare la persistenza di linguaggi che non necessariamente guardavano al naturalismo rigoroso introdotto a Roma e poi nel Sud Italia dal Merisi. A concepire questa ricognizione, condotta prima di tutto lungo l’asse Milano-Genova, nella scia delle personalità di Giulio Cesare Procaccini e Bernardo Strozzi, è Alessandro Morandotti, uno dei nostri storici dell’arte più attenti allo studio della formazione delle grandi collezioni nel Nord Italia, con particolare attenzione all’ambito lombardo. Ricordando la sua frequentazione di periodi (il Settecento), artisti (da Vermiglio a Paolo Pagani) e vicende eccentriche rispetto al mainstream della storia dell’arte, abbiamo provato a domandargli un quadro complessivo delle tante e diverse narrazioni che fanno capo alla mostra alle Gallerie d’Italia. Insistendo non tanto e non solo sul Caravaggio e i suoi seguaci, ma anche su quella pittura che oggi, in un disegno critico che fa riemergere le differenze e le intermittenze dei valori, possiamo considerare in qualche modo alternativa alla fiammata realista del caravaggismo.

Alessandro Morandotti, storico dell’arte e curatore della mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri”.

La mostra sembra prendere forma attorno all’idea di rappresentare la pittura che al momento del massimo successo del Caravaggismo si continuava a fare in molte città d’Italia. Oggi, sotto la pressione del successo soverchiante del Merisi, verrebbe quasi da definire quella pittura “anti-caravaggesca”. Che rischia però di essere una definizione di comodo, che non ci dice nulla in merito alla complessità di questo cultura che non aveva accolto automaticamente le istanze naturalistiche. Cos’era allora quella pittura? C’è uno stile, un linguaggio, un gruppo di artisti-faro che, al di là delle contingenze geografiche, ci possa aiutare a definirla?

L’idea era di provare a far capire, anche provocatoriamente, come Caravaggio non uniformi il linguaggio della pittura italiana nei decenni in cui si afferma, dal 1600 al 1630-40, prima da vivo e poi con la forza delle sue opere e la presenza dei suoi seguaci. In tutti quei luoghi dove Caravaggio ha vissuto e operato la storia dell’arte oggettivamente cambia: pensiamo a Roma, a Napoli e all’Italia meridionale. Ma in altre zone non è sufficiente l’arrivo di un dipinto pur importante come il “Martirio di sant’Orsola”, che da Napoli giunge a Genova nel 1610, perché si avverta questa discontinuità. In realtà la lingua figurativa dell’Italia pluricentrica ha una tradizione così radicata che non basta il quadro di un grande pittore perché le cose cambino. È questo un po’ il gioco e il punto di vista su cui è costruita la mostra: provare a capire come le tradizioni figurative abbiano mantenuto la loro autonomia e forza nonostante l’apparizione di una “bomba” com’è l’opera che arriva a Genova. Non poteva essere una singola tela d’altronde a riscrivere la vicenda artistica di una città in cui si dipingeva molto bene, a partire dalla lezione di Perin del Vaga, e dunque di un allievo diretto di Raffaello, e poi in stretta connessione con la fortuna di Luca Cambiaso, che uniforma la pittura di decorazione a Genova alla fine del Cinquecento. Quando poi Cambiaso si sposta in Spagna, in città continuano ad arrivare opere importanti. Dalla Toscana, dalla Lombardia. O pensiamo ancora ai quadri dell’urbinate Federico Barocci. Genova diventa uno dei centri dell’elaborazione del tardo manierismo, con questa pittura colorata, di facile apprezzamento per il devoto, molto comunicativa, senza l’idea drammatica e in qualche modo “autoritaria” della pittura di Caravaggio, che t’inchioda quando la guardi. In questo contesto già nel 1605 Rubens aveva cominciato a licenziare la meravigliosa pala della Chiesa del Gesù, un quadro che inaugura il barocco a Genova, non diversamente da quello che era avvenuto con le sue opere a Mantova nella Chiesa della Trinità e per la Chiesa Nuova di Roma. Caravaggio insomma aveva degli “avversari”: altri pittori che sapevano dipingere altrettanto bene e che stavano facendo scuola in maniera autonoma e senza contaminazioni con il suo linguaggio.

 

Peter Paul Rubens, “Circoncisione”, Genova, Chiesa del Gesù, 1605, olio su tela, 400×225 cm.

Il confronto tra le tre Sant’Orsola, da cui prende le mosse la mostra evidenzia nel caso dell’opera meno conosciuta sino a oggi, quella del Procaccini, un chiaro riferimento al Laooconte. Nell’ultimo articolo pubblicato sul nostro blog abbiamo parlato del lavoro di copiatura di Rubens dall’antico. Anche lo stile classicista di Giulio Cesare prende le mosse da quella pratica?

Quel quadro di Giulio Cesare è una grande rivelazione. È stato dipinto velocemente, con questa pittura abbozzata che è tipica sua, e restituisce l’idea di un rilievo antico. Ci sono il carnefice e la vittima, contrapposti. Ognuno inarca la schiena a specchio. L’idea è che Procaccini abbia davanti agli occhi un calco del Laooconte. Ma non dobbiamo dimenticare che prima di diventare pittore, Giulio Cesare è stato a lungo scultore. Lo studio dei modelli antichi e in qualche modo della pratica della costruzione di una scena su di un blocco di marmo era nelle sue corde, e quindi anche l’idea di un altorilievo. Questo avviene nel momento in cui mette in opera questa terza versione del “Martirio di sant’Orsola”, completamente svincolata dal modello di Caravaggio, e che dal punto di vista dell’esecuzione è vicina al quadro dello stesso soggetto che dipinge Bernardo Strozzi, forse qualche tempo prima. In generale abbia capito è Strozzi a mettersi nella scia di Procaccini dopo il successo delle opere di questi a Genova. Ma qui le cose devono essere andate diversamente. È probabile che qualcuno gli abbia ordinato un quadro di questo soggetto, conoscendo quello di Caravaggio. In questo caso Giulio Cesare va per la sua strada, costruendo questo gioco di elastico tra le due figure che in qualche modo è completamente slegato rispetto alle composizioni slegate dei due dipinti dei suoi contemporanei.

Giulio Cesare Procaccini, “Martirio di Sant’Orsola”, Collezione Privata, 1620-1625, olio su tela, 141×144 cm.

Procaccini e Strozzi sono due tra i grandi protagonisti di questa mostra. Spesso ci appaiono curiosamente vicini, per invenzioni cromatiche e di luci. Nel caso di Procaccini la critica non ha avuto difficoltà a riconoscere le sue radici in Correggio e Parmigianino. Qual è invece la formazione di Strozzi, che a volte viene ancora inserito tra i Caravaggisti?

La formazione di Bernardo Strozzi resta abbastanza misteriosa. Era un uomo di chiesa, membro dell’ordine dei Cappuccini, che a certo punto per provare a dipingere in maniera più continuativa chiede una dispensa, con la scusa di badare alla madre vedova. Viene così iscritto al clero secolare e può avere una maggiore libertà. Sappiamo dalle fonti che è stato allievo di un allievo di Federico Barocci. Dunque di un artista di tradizione manierista, il che rispecchia bene le sue scelte successive. Per mettere a punto il suo stile guarda certamente alle composizioni di Caravaggio che arrivano a Genova in quegli anni, anche attraverso delle copie. Ce lo dice il taglio ravvicinato delle sue impaginazioni, spesso a mezze figure, che presuppone la messa a punto dell’impianto compositivo sulla base delle opere di Caravaggio. Ma dal punto di vista esecutivo, che è un elemento ben più importante nella lingua degli artisti, Strozzi non accosta mai la pittura caravaggesca. Il gusto per il dettaglio prezioso, per il tocco, per delle stesure molto elaborate, per cromatismi accesi e cangianti, è quanto di più lontano dalla sintesi disegnativa e cromatica di Caravaggio. In questo senso l’esempio di Procaccini e in parte anche di Rubens sono fondamentali. L’esuberanza disegnativa e cromatica di Strozzi deriva dalle opere di Procaccini, che giungono numerosissime a Genova, e dalla conoscenza di Rubens, che a Genova è un pittore importante e radicato.

Bernardo Strozzi, “Madonna con bambino e san Giovannino”, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Rosso, 1620-1622, olio su tela, 158×126 cm.

Passando sul fronte della committenza, la mostra si muove tra le diverse personalità di due collezionisti, Marc’Antonio e Giovan Carlo Doria. Possiamo tratteggiare un profilo di entrambi?

Le mostre vanno anche costruite secondo una logica narrativa, che forzi magari i fatti della storia, ma che permetta in qualche modo di seguire una traccia che deve essere comunicata al pubblico. Mi è parso interessante provare a giocare una parte significativa del racconto di quest’esposizione sulle scelte contrapposte di questi due fratelli, uno per così dire più amante dei caravaggeschi e committente del “Martirio di sant’Orsola” del Merisi, l’altro interessato maggiormente alla pittura virtuosa della nuova età barocca. Quello che ci aiuta in questa divisione che può sembrare a prima vista schematica, ma che riflette le scelte di fondo di entrambi, è il fatto che Marc’Antonio Doria aveva interessi economici e affettivi nel Viceregno. Gli era dunque naturale rivolgersi al mondo degli artisti napoletani, attraverso i suoi agenti e le sue relazioni. Non dimentichiamo che è a Napoli avviene la commissione del “Martirio di Sant’Orsola”. In seguito Marc’Antonio diventerà uno dei committenti più importanti di Battistello Caracciolo, a cui ordinerà per la propria collezione nove quadri e che inviterà a Genova per dipingere in una sua villa a Sampierdarena. Dall’altra parte c’è Giovan Carlo Doria, che intrattiene a Milano non solo interessi economici e finanziari, ma anche legami affettivi: è infatti imparentato con la famiglia dei Visconti Borromeo, che sono i primi promotori dell’attività dei fratelli Procaccini. Sono loro ad averli chiamati dall’Emilia per decorare la loro villa di Lainate. Proprio questo legame di parentela porterà dunque Giovan Carlo a intercettare Giulio Cesare Procaccini. Il suo è un collezionismo ambizioso, più di quello del fratello, anche nel numero dei dipinti delle rispettive collezioni. Alla morte, Marc’Antonio Doria aveva circa duecentocinquanta quadri. Giovan Carlo ne possedeva oltre settecento. Era all’epoca uno dei maggiori collezionisti di dipinti nell’Italia del Nord.  Forse solo i duchi di Mantova hanno un profilo altrettanto sensibile alle novità della storia dell’arte. Anche lui, al pari di Vincenzo Gonzaga, è un collezionista-diremmo oggi-di contemporanei. Ama i pittori fiamminghi e quelli francesi. Si fa ritrarre da Rubens ma anche da Simon Vouet, che vive nella sua casa per circa un anno. E guarda verso Milano. Acquista le opere dei Pestanti, da Cerano a Morazzone, mostrando interesse per i temi drammatici  e macabri impaginati in maniera fortemente teatrale. E arriva a possedere ben novanta dipinti di Giulio Cesare Procaccini.

Peter Paul Rubens, “Giovan Carlo Doria a cavallo”, Genova, Galleria Nazionale della Liguria a Palazzo Spinola, 1606, olio su tela, 265×188 cm.

Un momento molto stimolante sul piano scientifico è quello in cui si mostra la sensibilità che a Genova si registra per gli sviluppi della pittura milanese, da Cerano e Morazzone, sensibilità che produce peraltro il bellissimo dipinto del “Martirio di san Bartolomeo” di Gioacchino Assereto. Come nasce questo scambio fecondo tra le due città, e come si sviluppa?

Milano e Genova sono città gemellate in diversi momenti della loro storia. Sin dal Medioevo ci sono rapporti di carattere economico e sono vivi e costanti gli scambi culturali ed artistici. Nel momento in cui Milano entra nell’orbita spagnola e Genova contemporaneamente diventa la cassa continua dell’Impero e poi dei re di Spagna, questo legame diventa ancora più stretto. I banchieri genovesi si radicano allora nell’avamposto nel potere spagnolo in Italia. In modo emblematico, accanto alla sede della mostra svetta il palazzo del banchiere Tommaso Marino, costruito dall’architetto Galeazzo Alessi per quello che indubbiamente era dei personaggi chiave per la finanza milanese dell’epoca, che è stabilmente a Milano con la propria famiglia dal secondo quarto del Cinquecento. All’inizio del Seicento i Genovesi cominciano a commissionare in maniera sistematica agli artisti milanesi opere per le cappelle private che avevano nelle chiese della loro città d’origine, a collezionare nelle loro case i loro dipinti o ad affidare le decorazioni ad affresco dei loro palazzi. La “naturalizzazione” dei Genovesi a Milano costituisce dunque un grande motore di questo scambio con Milano, e proprio in mostra l’opera più antica che esponiamo di Giulio Cesare Procaccini, la “Trasfigurazione” della Pinacoteca di Brera, ora sappiamo che era la pala d’altare di una cappella funeraria che la famiglia Marino aveva in una chiesa della città di Milano, quella dei Canonici di san Celso. La teatralità esibita degli artisti milanesi, che trova testimonianza nei quadri di Cerano e Morazzone, fa scuola, e proprio quel quadro del “Martirio di San Bartolomeo” di Assereto, con le figure che sembrano tirate da una parte all’altra della tela, ci fa capire qual è il dialogo coi Milanesi, per le accattivanti prospettive multifocali, dispersive e forzate, gli scorci improvvisi, i colpi di scena, che sono elementi fondamentali dello scambio tra le due scuole. Poi non dimentichiamo che in questa dinamica conta molto anche il passaggio da una città all’altra di letterati, che in qualche modo fiancheggiano gli artisti, celebrando le loro opere ed esalto la loro qualità di maestri. Non possiamo non citare la figura di Giovan Battista Marino, che fa la spola tra diverse città italiane ed europee, ed è l’intellettuale che determina la nuova fortuna dei componimenti poetici dedicati alle opere d’arte. In mostra esponiamo un’importantissima testimonianza letteraria, legata a Girolamo Borsieri, antiquario e conoscitore comasco che è in contatto con il Marino, ma anche con artisti come Luciano Borzone. Borsieri è un po’ il tramite tra gli artisti milanesi, i collezionisti e committenti genovesi, la scuola locale di pittura, diventando uno dei motori di questi scambi. Abbiamo voluto esporre un magnifico dipinto di Borzone: una “Carità Romana”, che sappiamo essere stata eseguita per il collezionista milanese Giovanni Maria Visconti,  un cliente che proprio il Borsieri mette in contatto con l’una e l’altra cerchia di artisti.

Gioacchino Assereto, “Martirio di San Bartolomeo” (visione parziale), Genova, Accademia Ligustica di Belle Arti, 1630-1635 circa, olio su tela, 120×170 cm.

Una delle evidenze della mostra è che a Genova più che altrove a un certo punto non ha senso pensare esclusivamente in termini di pittura italiana. Rubens, Van Dyck contribuiscono alla definizione della nuova poetica dei moti e degli affetti come Giulio Cesare e Strozzi. Penso alla sezione dedicata alle teste di carattere, che dialoga idealmente con la spettacolare cena di sant’Annunziata del Vastato. Che spazio avevano questi quadri da stanza nelle collezioni genovesi e in quelle milanesi?

La maggior parte dei soggetti raccolti nelle case dei Milanesi e Genovesi era di carattere e di iconografia sacra. Questa serie di apostoli, che restituivano le immagini dei primi seguaci di Cristo, costituivano un esempio importante da avere sempre davanti agli occhi. I pittori cercano di descrivere queste figure di apostoli come se fosse animate da febbrile devozione. Per questo le opere che li rappresentano spingono molto sul pedale dei moti e degli affetti, proprio perché quest’accensione devota deve essere trasmessa a chi guarda questi quadri ed è chiamato a pentirsi assieme a loro e a partecipare del dolore della passione di Cristo. C’è una specie di volontà di avere davanti agli occhi figure che rappresentino un esempio e uno stimolo continuo alla preghiera e alla fede. In questo senso mi sembrava bello poter esporre oltre alla grande “Ultima Cena” che vede Cristo con gli apostoli riuniti in unico quadro anche una serie di dipinti che in modo isolato restituiscano, attraverso opere di Rubens, Van Dyck, Procaccini e Strozzi, quello che è un vero e proprio genere all’interno della pittura del Seicento.

Peter Paul Rubens (e bottega), “San Mattia”, Roma, Galleria Pallavicini, 1613-1620, olio su tavola, 105×74 cm.

L’ “Ultima Cena” di Giulio Cesare Procaccini, che abbiamo appena evocato, è l’attestazione che il  modello del Cenacolo di Leonardo nella Milano di primo Seicento è ancora un riferimento imprescindibile?

Nel momento in cui un pittore attivo a Milano si trova a lavorare sul tema dell’Ultima Cena non può non far riferimento a Leonardo. Il Cenacolo è ancora un testo normativo alla fine del Cinquecento, non solo per gli artisti che operano in Lombardia ma anche per i trattatisti, e quindi per la teoria dell’arte in tutta Europa. Giulio Cesare Procaccini dimostra di aver studiato quel dipinto, perché l’idea di restituire lo sgomento e la meraviglia degli apostoli nel momento della rivelazione del tradimento da parte di uno di loro, coi dodici che scattano in piedi e dialogano a gruppi, è chiaramente mutuata da Leonardo. Nuova è l’enfasi della teatralizzazione del dipinto, con due figure di quinta che incorniciano la scena e la introducono, e con un ritmo di stesure e costruzione dei panneggi che documenta il dialogo strettissimo di quegli anni con Rubens. Se vogliamo usare una locuzione curiosa, possiamo dire che è una specie di Cenacolo barocco, e dunque una rilettura attualizzata di un’opera che era ancora un saldissimo punto di riferimento.

L’ “Ultima Cena” di Giulio Cesare Procaccini nell’allestimento della mostra alle Gallerie d’Italia. L’opera, completata nel 1618, proviene dalla chiesa genovese di sant’Annunziata del Vastato. Le dimensioni della tela, comprensive degli ampliamenti del 1686, sono di 490×855 cm.

Una delle linee di sviluppo spettacolari e imprevedibili della scuola genovese è quella della pittura di tocco, che porta da Strozzi alla “cometa” di Valerio Castello, un genovese che si forma su Parmigiano. Possiamo dire che quella sensibilità, attraverso Domenico Piola, poi finisce oltre l’epoca abbracciata da questa mostra con l’episodio clamoroso per tutta l’arte europea di Alessandro Magnasco?

Mi pare-gli studi lo hanno già messo a fuoco-che la mostra faccia vedere come questa linea di eredità che da Procaccini arriva ai Genovesi proprio nella direttrice della pittura di tocco è fortissima, perché non solo gli artisti che abbiamo documentato in mostra ma anche Assereto, Domenico Piola e altri hanno questo modo di dipingere abbozzato, frenetico e vorticoso nel muovere il pennello, che è chiaramente mutuato dalla conoscenza diretta dell’attività di Giulio Cesare a Genova. In effetti il caso di Alessandro Magnasco è ancora in qualche modo da porsi nel solco e nell’eredità di questa tradizione lombardo-genovese che si radica in lui in modo molto efficace e attualizzato in termini di velocità esecutiva settecentesca. E quindi esiste proprio una linea dentro la pittura genovese segnata dalla presenza delle opere di Procaccini, che non a caso è uno dei pochi lombardi a cui Raffaello Soprani, il grande biografo dei pittori genovesi, che scrive le sue “Vite” poco dopo la metà del Seicento, dedica una biografia a Giulio Cesare, perché in fondo è un lombardo naturalizzato a Genova, pur risiedendovi stabilmente solo in occasione del grande quadro per sant’Annunziata del Vastato. Ma il suo invio di opere di destinazione pubblica o privata nel secondo e terzo decennio è continuo.

Matthias Stom, “Saul fa evocare Samuele dalla pitonessa di Endor”, collezione privata, Courtesy Robilant+Voena, 1639-1641, olio su tela, 170 x 250 cm.

Giovanni Serodine muore nel 1630. A quelle date in Italia nessuno più dipingeva ormai in maniera caravaggesca-nemmeno lui, che era passato a sua volta a uno stile influenzato da tutto ciò che era accaduto nel terzo decennio. E però agli inizi del quarto decennio da un lato Genovesino rimette al centro una ricerca naturalistica, dall’altro abbiamo l’episodio schiettamente caravaggista, ancorché fuori tempo massimo, di Matthias Stomer (o Stom), a cui reagisce Assereto. Caravaggio, che sembrava a Genova ignorato nel 1610, rispunta così inaspettatamente. Le chiedo: non è che esista un carsismo della maniera caravaggista, lungo il secondo e terzo decennio, che finisce per produrre questa risorgenza?

La mostra taglia con la scure le mille sfaccettature della cultura artistica genovese. Genova è uno dei grandi centri della storia dell’arte italiana del Seicento. Non dimentichiamo che in città arrivano anche le opere di Guido Reni, di Orazio Gentileschi, ritorna da Roma Domenico Fiasella, importando un timido naturalismo. Gli stimoli per gli artisti sono davvero tantissimi. In realtà si tratta però di fiammate, che non incidono mai sino in fondo nel corso della pittura genovese,  che guida verso i fasti del barocco la sua vicenda, destinata a trovare in Domenico Piola e Gregorio De Ferrari la manifestazione più diretta della fortuna della grande decorazione barocca, nel segno di Correggio, e con dunque Procaccini a monte, ma anche nel segno di Bernini e dei seguaci, a partire da Pierre Puget, che a Genova si radica. Potremmo dunque dire che a fronte di questa linea dominante, ogni tanto assistiamo a momenti di naturalismo, come avviene con Orazio De Ferrari e Gioacchino Assereto. Il caso di Matthias Stom, che abbiamo voluto documentare in mostra, è abbastanza singolare. Si tratta di un pittore che arriva negli anni trenta a Roma, in un momento in cui gli echi caravaggeschi si stanno spegnendo. Una specie di canto del cigno dunque, che si fonda sull’osservazione attenta delle opere a lume di notte di Gerrit van Honthorst. Si sposta da Roma a Napoli e poi in Sicilia, dove è attivo a lungo. Proprio in Sicilia, zona dell’Italia meridionale con cui i Genovesi intrattengono scambi commerciali e finanziari molto intensi, viene intercettato da un membro della famiglia Spinola, che fa arrivare in città una serie di quadri a lume di notte a tema cristologico, ma anche declinati in soggetti più insolito, come il negromantico “Saul fa evocare Samuele dalla pitonessa di Endor”. Sono quadri a lume di lanterna o di fiaccola, che nel Palazzo Spinola verranno collocati a fianco della “Morte di Catone” di Gioacchino Assereto, che sembra quasi dipinto dalla stessa mano delle tele di Stomer. La mostra è utile proprio perché gli accostamenti consentono di capire parentele, dipendenze e relazioni tra quadri e artisti. Assereto qui è completamente assimilato a Stomer, in quello che resta uno dei capolavori dei Musei di Strada Nuova a Genova, e che testimonia l’improvvisa fortuna della cultura caravaggesca a Genova quasi fuori tempo massimo.

Gioacchino Assereto, “La morte di Catone”, Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco,1640 circa, olio su tela, 203×279 cm.

 

 

 

 

 

TAG: Alessandro Morandotti, Caravaggio, Gallerie d’Italia
CAT: Arte

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