Todo Modo di Elio Petri: quarant’anni fa

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5 Agosto 2016

Quarant’anni fa, nel 1976, Todo Modo di Elio Petri usciva nelle sale italiane. Il film era un’aggressione metaforica all’allora Democrazia Cristiana e metteva in scena l’ipotetica autodistruzione del partito, in un clima tetro fatto di miseria umana, sotterfugi e istinti primordiali.

Ancora oggi, dopo due ventenni, il lungometraggio del regista romano è, assieme a Cadaveri Eccellenti di Francesco Rosi[1] il lavoro che è riuscito a congelare, con risvolti premonitori e toni accusatori, la cultura politica italiana negli anni del Compromesso Storico. Nato dalla libera interpretazione del romanzo omonimo di Leonardo Sciascia (1974), il film di Petri manipolò la macchina narrativa dello scrittore di Racalmuto, creando un’ambientazione ancora più assoluta e alienante, lontana dai luoghi descritti nel romanzo. Il libro di Sciascia era una denuncia della pochezza e della corruzione della DC e dei suoi notabili, un mondo in cui ogni mezzo era lecito se finalizzato alla conservazione del potere e alla propria sopravvivenza[2]. La critica al partito e alla sua intellighenzia si sovrapponeva ai dialoghi tra i due protagonisti, un pittore girovago e un prete gesuita, scanditi dal susseguirsi di delitti efferati e inspiegabili. La sceneggiatura del film (ad opera di Elio Petri e Berto Pelosso), era, invece, un’interpretazione radicale, in cui il protagonista narrante – il pittore – , scompariva per diventare l’occhio inclemente del regista, e i personaggi, anche quelli più umani, acquisivano contorni negativi e parossistici. Petri cercò di rendere l’idea di Sciascia una denuncia violenta, al punto che la capacità descrittiva del romanzo, all’apparenza semplice ma piena di rimandi, divenne, nel film, una caricatura grottesca e implosa, che non lasciava spazio a posizioni intermedie o a giudizi mediati dalla lettura. I politici raccontati da Petri erano deboli e impotenti, attaccati al potere, schizofrenici perché divorati dal rimorso, cattolici e peccatori convinti. Todo Modo diventò un’istantanea feroce e completamente parziale di quel tempo, uno strano monumento che, invece che celebrare le virtù del paese, rendeva visibile l’effetto del potere sui politici, accostando una spiritualità frustrata e contorta all’opportunismo laico dei compromessi. Ancora oggi, dopo quarant’anni, ascoltando i dialoghi del film, riemerge un tempo non troppo remoto, di una politica fatta di parole misurate e di facciata, quasi autistiche, di un vocabolario codificato e spesso preso in prestito dal Vangelo, di discorsi inclusivi e diplomatici, simili a sermoni.

– Lascia che parlino prima loro, tanto uno che comincia c’è sempre. Non dire “dolorosamente”, o “soffertamente”, o “tristemente”, e soprattutto “magmaticamente”, come fai sempre. Ricordati che tanto loro non ti credono, come tu non credi a loro. Parla difficile, solo se non hai niente da dire -.

Il film venne censurato e la sua proiezione nelle sale durò meno di un mese. Nonostante l’atmosfera surreale e caricaturale – un dispositivo costruito ad arte per edulcorare i riferimenti evidenti alla situazione politica del tempo -, l’aggressione all’apparato della DC fu troppo brutale per passare inosservata. Alla prima censura seguì una seconda e nefasta coincidenza, una sincronia con quanto stava per avvenire in Italia, due anni dopo, con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Dal 1978 il film divenne, di fatto, non più proiettabile, insostenibile per gli occhi di un paese, ma soprattutto di un partito, che stava scontando, contemporaneamente, il lutto e il senso di colpa, l’impotenza di fronte alla morte dello statista. Del resto, l’interpretazione di Volonté, per stessa ammissione di Petri, era profondamente ispirata alla figura dell’allora Presidente del Consiglio. L’attore ne aveva studiato la mimica, il tono, il lessico, la presenza evanescente, al punto che il regista romano fu costretto, di comune accordo, a cestinare i primi due giorni di girato, perché l’interpretazione dell’attore era “imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco”. Si ribaltava in qualche modo quel dualismo tra realtà storica e interpretazione cinematografica che, se nel caso di Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970), aveva avuto la forma della denuncia ironica, attraverso la ricostruzione a posteriori; nel caso di Todo Modo assumeva una macabra valenza di ritratto premonitore.

Dopo la morte di Moro, l’attitudine violenta e critica del film divenne insostenibile, un assalto frontale tutto incentrato sulle bassezze della classe dirigente e del suo Presidente, “M.”. Petri aveva vinto l’Oscar (1971) come miglior film in lingua straniera con l’Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). Nonostante il riconoscimento maturato oltreoceano, Todo Modo non venne mai distribuito negli Stati Uniti (nel film sono evidenti i riferimenti ad un Grande Fratello extra-nazionale che controlla e veicola l’operato del partito). Quel 1976 sancì il termine del connubio tra il regista e Volonté, decretando il declino di quel cinema di impegno civile che, durante gli anni ’70, aveva visto proprio in Petri il suo autore più tagliente.

Così, per oltre quarant’anni, il potere enigmatico del film è rimasto legato ad una serie di coincidenze drammatiche, alla sua decadenza premonitrice, che ancora trova eco nei giorni odierni. L’interpretazione meticolosa di Volonté venne bollata come caricaturale, la prova, in abito talare, di Mastroianni (Don Gaetano) non rimase scolpita nell’immaginario al pari di altre, e i camei della Melato e di Ingrassia (Nastro d’Argento come migliore attore non protagonista) non ebbero la risonanza di altri. Eppure oggi, dopo la raggiunta storicizzazione del periodo rappresentato, quello che colpisce in Todo Modo è, soprattutto, la potente macchina predisposta, in ogni settore disciplinare, per trasmettere la denuncia di cui Petri si faceva portavoce. Il film è un coacervo di eccellenze, dalla recitazione alla colonna sonora, dalla fotografia alla scenografia, tutto finalizzato alla rappresentazione metaforica di un’invettiva. Morricone (che prese, senza rimpianti, il posto di Charles Mingus), realizzò una colonna sonora angosciante e psicologica mentre Luigi Kuveiller tagliò la fotografia sui personaggi, evidenziandone l’espressività e il disagio. Il loro contributo, assieme a quello di Dante Ferretti, trasferì nel film aspetti più propri del teatro, una sorta di indulgenza nei dettagli e nei risvolti drammatici.

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Per anni chi vi scrive ha cercato di capire quale fosse l’edificio in cui il film era stato girato.

Non si tratta di un particolare da poco, perché lo scollamento tra l’opera di Sciascia e il film nasceva proprio dalla scelta delle ambientazioni fatte da Petri. La storia dello scrittore di Racalmuto avviene nell’ipotetico eremo di Zafer, una sorta di ritiro idilliaco in un entroterra a-geografico. Il film di Petri è girato all’interno di un albergo-bunker, un’architettura brutalista e violenta, che affonda le sue radici nel terreno per diverse decine di metri. Il messaggio simbolico è ovvio: i peccati della DC, anche quando vengono espiati seguendo l’ipocrisia di un pentimento cattolico, sono accompagnati da nuovi accordi clientelari, nuovi atti bulimici, che devono essere protetti dall’esterno, nascosti. Così, i dirigenti del partito, come in una catabasi dantesca, sprofondano nelle viscere della terra per alimentare le loro dipendenze, spirituali e terrene. Il tutto avviene in un’architettura perfettamente simbolica, la concretizzazione esatta dei risvolti etici e psicologici dei suoi ospiti, un bunker dall’aspetto sobrio, ma sulle cui pareti campeggiano i lavori di Burri, in cui l’apparente assenza di opulenza stride con i discorsi, il tenore di vita, le azioni dei convenuti.

Il grande paradosso di Todo Modo è che l’edificio in questione non è mai esistito, nonostante la pellicola mostri qualcosa di vero, concreto e massivo. Il santuario ritratto nel film venne realizzato in due parti: la parte emersa, l’ingresso al bunker, fu costruito a Torvaianica nel giardino presidenziale, mentre gli interni furono realizzati a Cinecittà. Guardando il film, risulta difficile credere che quanto circonda gli attori non esista davvero, nel mondo reale. Dante Ferretti, l’autore di questo mondo ipogeo fatto ad arte, ha confermato le dinamiche delle ambientazioni in un’intervista, raccontando di come il progetto della scenografia sia stato globale, fino alla cura e realizzazione dei minimi dettagli (come per gli arredi delle celle del bunker). La scenografia divenne un tutt’uno con l’intento critico del regista, trasformando gli spazi del film in un universo disumano fatto ad hoc. Nell’attraversare i corridoi con le controsoffittature a quadri diagonali, nel vedere le tracce delle casseforme lasciate a vista, i lucernari circolari asettici che illuminano la scena dall’alto, prevale un senso di claustrofobia e un connubio tra disumanità e autoreclusione. Nelle scenografie ci sono rimandi ad altre architetture – come il Convitto di San Tommaso d’Aquino dello Studio Passarelli, la Pastoor van Arskerk di Aldo van Eyck a Den Haag, o l’opera del monaco/architetto benedettino Dom Hans van der Laan -,  architetture realizzate pochi anni prima e che, molto probabilmente, non sono state un riferimento cosciente nell’ideazione degli ambientazioni, ma che fanno capire, ancora una volta, quanto il film fosse completamente calato nel suo tempo.

Ferretti predispose un teatro di posa perfetto, potenzialmente infinito, un luogo che assecondava le azioni dei protagonisti e che entrava in risonanza con la fotografia di Kuveiller.

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Se dovessi accostare Todo Modo ad un’opera d’arte, penserei al ritratto di Innocenzo X (1953) fatto da Francis Bacon. Sarebbe un accostamento azzardato, perché il pittore britannico ha sempre rifiutato le interpretazioni anticlericali fatte della sua opera. Li accomuna tuttavia un risultato visivo disturbante, dove il potere temporale sembra invadere la “sacralità” della figura raggiungendo il grottesco. Sciascia fu il primo a difendere Todo Modo, nonostante non avesse preso parte alla sceneggiatura del film, come nel caso di tutte le altre trasposizioni cinematografiche delle sue opere letterarie. Aveva definito l’opera di Petri come un processo alla classe dirigente democristiana, “un processo che suona come un’esecuzione”, così come l’Innocenzo X di Bacon mi è sempre sembrato seduto su una sedia elettrica.

Elio Petri morì quattro anni dopo Moro. Non ho trovato, per ora, interviste o testi che riportino il suo punto di vista sul film dopo il 1978. Mi chiedo cosa abbia provato, quel 9 Maggio, vedendo al tg le immagini di Via Caetani.

 

[1] “Cadaveri Eccellenti” uscì nelle sale nello stesso periodo di Todo Modo. Anche in questo caso il film nasceva dalla trasposizione cinematografica di un’opera di Leonardo Sciascia (Il contesto, 1971). Nel film di Rosi avviene l’assassinio del segretario del PCI (al tempo Enrico Berlinguer), mentre Petri racconta la morte di M. (Aldo Moro, interpretato da Gian Maria Volonté). Il segretario comunista e l’allora presidente democristiano furono tra i principali sostenitori del Compromesso Storico, il tentativo di predisporre un’alternativa democratica che fosse in grado di governare il paese, all’interno di una grande coalizione trasversale.
[2] Il titolo, “Todo modo”, nasce da una citazione: “Todo modo para buscar la voluntad divina” (Ogni mezzo per raggiungere la volontà divina), dagli “Esercizi spirituali” di Sant’Ignazio di Loyola. 

 

 

I disegni pubblicati in questo articolo sono il tentativo virtuale, fatto dall’autore, di ricostruire l’aspetto dell’eremo-bunker di Zafer, così come descritto nelle scene di Todo Modo, qualora l’edificio fosse realmente esistito.

Per vedere il film: https://www.youtube.com/watch?v=1Ks5IguoSJk

TAG: Aldo Moro, Cultura, dante ferretti, elio petri, ennio morricone, gian maria volonté, italia, leonardo sciascia, Luigi Kuveiller, marcello mastroianni, mariangela melato, todo modo
CAT: Arte, Cinema

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