Il sogno della bad bank europea e l’incubo italiano di finire in un baratro FINO

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3 Febbraio 2017

L’Autorità Bancaria Europea (EBA), come pure la Vigilanza bancaria (che fa capo alla BCE), in questi anni non ha brillato per politiche attente agli impatti macroeconomici. Per esempio, gli interventi pro-ciclici sul capitale delle banche hanno compresso la generazione di moneta/credito e quindi aggravato in modo sostanziale l’andamento economico dei paesi in crisi. E non ha nemmeno brillato per equità. Ad esempio, gli scenari utilizzati per gli stress test penalizzavano sempre i paesi in crisi con ipotesi di ulteriore decrescita del PIL e di caduta del prezzo di titoli di stato, ma nulla faceva sui cosiddetti level 3 assets. Ovvero titoli illiquidi di difficile valutazione, in quanto privi di prezzi di mercato, di cui sono piene le banche di paesi cosiddetti virtuosi (e che se troppo sopravvalutati farebbero saltare queste banche ed i relativi paesi).

Quindi, quando l’EBA parla di una bad bank europea da 1.000 miliardi di euro, si ha la sensazione che qualcosa non vada. È legittimo chiedersi se il lupo ha perso il vizio o se si è travestito invece da nonnina buona per mangiarsi Cappuccetto Rosso.

A cosa serve la bad bank

La bad bank, se fatta bene, è una buona idea, perché evita l’avvitamento del mercato delle sofferenze e degli immobili. Semplificando molto: tante sofferenze messe sul mercato comportano tanti immobili da cedere a prezzi bassi. La discesa dei prezzi degli immobili crea problemi su altri crediti e quindi più sofferenze, con ulteriore aggravamento della crisi immobiliare. La bad bank toglie un grande quantitativo di sofferenze dal mercato ed evita questo circolo vizioso che deprime il prezzo delle sofferenze ed incide negativamente anche sull’economia reale. E’ quello che la Spagna ha fatto con la bad bank Sareb, isolando gli effetti della crisi e permettendo alle banche di ricominciare prima a fare credito. Questo ha sventato una seria crisi immobiliare (tanti villaggi costruiti vuoti) ed ha contribuito ad una buona ripresa dell’economia spagnola. È quello che avrebbe dovuto fare Atlante ma che non è riuscito a fare per carenze esecutive di una strategia originariamente corretta (come purtroppo avevamo anticipato).

Come insegna il Grande Maestro George Soros, i mercati sono riflessivi: dagli un colpetto ed il crollo, agevolato, può diventare un tracollo. Quindi è importante incidere sulla struttura del mercato per evitare i circuiti viziosi descritti sopra. La bad bank ben fatta serve anche a spezzare questi circuiti.

Questo meccanismo è ancora più rilevante per l’Italia, anche se da noi non ci sono stati gli eccessi in termini di nuove costruzioni visti in Spagna. Questa rilevanza dipende dall’importanza del patrimonio immobiliare per il risparmio gli italiani (e quindi l’effetto depressivo che un’ulteriore caduta dei prezzi degli immobili avrebbe sui consumi e sul PIL), dalla concomitante scadenza di un numero elevato di fondi immobiliari e dalla necessità di alienare il patrimonio immobiliare di Stato per ridurre il debito.

E quindi, se la bad bank è una cosa buona, dove potrebbe essere il problema? Potrebbe esserlo se non fungesse da circuit breaker della riflessività di mercato, ma anzi la accentuasse, ossia se la bad bank servisse a costringere le banche a cedere a fondi speculativi grossi importi di crediti a condizioni di saldo, e la stessa bad bank poi provvedesse a cedere pacchetti che le banche non avrebbero ceduto. Oppure ove servisse a togliere alla gestione interna delle banche le sofferenze per alimentare i servicer esterni con grasse commissioni. La gestione esterna può essere una buona cosa se alimenta una maggiore efficacia di recupero. Può essere invece un danno se non aiuta a gestire le crisi aziendali salvaguardando la struttura industriale di un paese, o se serve a far incassare a servicer laute commissioni (come potrebbe succedere ad Atlante), o se serve a far fare agli amici degli amici buoni affari comprando asset sottocosto (la valutazione delle sofferenze è una delle aree più opache dei mercati finanziari).

Il caso italiano e la differente strategia tra Intesa ed UniCredit

Bankwolf ci propone delle considerazioni corrette che spiegano implicitamente perché Intesa Sanpaolo decida di puntare sulla gestione delle proprie sofferenze (quale attivo bancario mi rende un 20%?) ed UniCredit invece le cede a carrettate.

Allora ci si chiede il perché di questa differente strategia e soprattutto del perché Mustier, così bravo a raccontare gli affari che fa con le cessioni, in questo caso non ha raccontato nulla sul prezzo di cessione di questi attivi (oltre 20 miliardi se si considera anche il radiato fiscale, ossia crediti portati a zero per sole ragioni di deducibilità delle perdite), noto come Progetto FINO, o sulle svalutazioni non dettagliate (a parte Atlante – spariamo sull’ambulanza) per oltre 4 miliardi. Soprattutto perché, come abbiamo spiegato, il processo presentava alcuni punti di visibile debolezza. Ed infatti, come prevedibile, Fortress si è aggiudicata gran parte della cessione. Quanto della maxi perdita di UniCredit è derivato dalla maxi cessione? Quanto sono grasse le commissioni di gestione (che si vedono ancora meno e sono molto complesse da leggere) date a Fortress per rimpolpare questo prezzo? ? A quali condizioni Fortress potrà incrementare la propria quota in futuro? Di quali oneri si fa carico Unicredit che normalmente spetterebbero all’acquirente?

Il dubbio si accentua vedendo il piano presentato da UniCredit: coperture delle sofferenze in forte crescita, molto oltre i livelli connessi con i recuperi storicamente conseguiti da UniCredit, e poi discesa. Quale parte delle coperture serve a rendere più facili ulteriori rilevanti cessioni, anticipando l’effetto negativo delle perdite e facendole pagare agli azionisti attuali, e quanto le serve a risparmiare sulle coperture fra qualche anno a beneficio degli utili?

Questi sono problemi per gli azionisti di UniCredit e per il consiglio di amministrazione che vigilerà, attento, sulle cessioni affinché queste avvengano alle giuste condizioni. Idem per la Vigilanza.

La fantafinanza

Ma il timore vero che ho è un altro. E anche se improbabile, ove mai si verificasse sarà molto utile rileggere a distanza di tempo questo scenario.

Ipotizziamo che il prezzo della cessione delle sofferenze di UniCredit sia stato non molto brillante. I fondi si aspettano un prezzo almeno superiore a quello della bad bank delle quattro banche salvate. Del resto Mustier è un investment banker dalle competenze indiscusse.

Ipotizziamo che UniCredit effettui il maxi aumento di capitale e poi venga fuori che il prezzo ottenuto da UniCredit sulle suddette sofferenze sia incredibilmente più basso di quanto ipotizzato oggi. Ove fosse vero, sarebbe una notizia molto price sensitive per chi deve decidere oggi di sottoscrivere l’aumento di capitale che parte il prossimo 6 febbraio, e non è pensabile che Mustier non la condivida con il mercato. Infatti, se il prezzo della cessione di sofferenze FINO, probabilmente molti degli investitori che sottoscrivono l’aumento di capitale di UniCredit potrebbero porsi qualche interrogativo. A mero titolo di esempio: perché Mustier ha ceduto sofferenze in un processo imperfetto e a un prezzo così basso? Ma allora quanto valgono le altre sofferenze di UniCredit? E quanto vale il patrimonio della banca rettificando le altre sofferenze al prezzo di cessione di FINO? Potrebbe essere riconsiderata la capacità del management che gli investitori stanno comprando quando sottoscrivono l’aumento di capitale.

Se la cessione delle sofferenze delle quattro banche salvate ha causato un terremoto che ha avviato la crisi di mercato che ha poi spinto alla creazione di Atlante, la notizia di UniCredit potrebbe essere devastante e le conseguenze potrebbero essere proporzionalmente peggiori. Quelle erano quattro banche saltate, questa è la prima o seconda banca del paese. Quelle erano venditrici forzate, UniCredit cede liberamente. Quello era un prezzo fissato a tavolino, questo è un prezzo ottenuto in un processo di mercato (sic!). Quelli erano pochi miliardi, questi sono decine di miliardi. Quelle erano posizioni in un’area territoriale che ha sofferto, queste rappresentano l’economia dell’intero paese.

Se fosse vero, potrebbe avviarsi una nuova fuga degli investitori dalle banche italiane, potenzialmente destabilizzante se proporzionata a quella vista a fine 2015. A quel punto la bad bank ipotizzata dall’EBA diverrebbe necessaria, e subito, per calmare gli animi.  L’acquisto delle sofferenze avverrebbe a prezzi calmierati oppure a prezzi depressi? E nel secondo caso chi effettuerebbe gli aumenti di capitale delle banche, costrette a cedere sofferenze a prezzi bassi? Il supporto sarebbe privo di condizioni o per usufruirne ci porrebbero come condizione necessaria l’invio della Troika?

A quel punto chi fermerebbe quanti chiedono già oggi la testa del Governatore e l’uscita dall’euro? Chissà se l’operazione FINO cova i semi del disastro per l’Italia, e se in Unicredit ci hanno pensato quando hanno deciso la cessione. Speriamo di non doverlo scoprire.

TAG: Bad Bank, banca d'italia, bce, EBA, intesa sanpaolo, Unicredit, Vigilanza bancaria
CAT: Banche e Assicurazioni

2 Commenti

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  1. massimo-matteoli 7 anni fa

    Non diamo però la colpa all’Europa. E’ solo ordinaria stupidità italica che non riesce a fare sistema nemmeno quando è in gioco la stessa sopravvivenza del “sistema”.

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  2. atlast 7 anni fa

    Perchè a livello europeo? Non basterebbe crearne una a livello italiano? Credo che già solo la sinergia derivante da un’unica bad bank italiana sia sufficiente a garantire un prezzo di vendita di portafogli di NPL ad un livello accettabile.

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