La soluzione alla crisi delle banche venete e la certezza del diritto

29 Giugno 2017

La scelta, decisamente opportuna del governo di intervenire nella crisi delle banche venete – una situazione che, analogamente a tanti altri casi di crisi di banche locali, languiva da troppo tempo – ha portato a soluzioni il cui esito ha sicuramente lati positivi, ma solleva al contempo molti dubbi. Se da un lato l’intervento del governo pare adeguato alla necessità di minimizzare i costi per “il sistema” e per risolvere finalmente un problema da tempo lasciato incancrenire (continuo a chiedermi dove guardassero le autorità di sorveglianza che avrebbero dovuto vigilare sui due istituti così come su molte altre banche locali i cui conti si sono alla fine rivelati non eclatanti), dall’altro sembra aver ancora una volta trasceso alcune delle regole del gioco che si era dato:  a cominciare dal bail-in, che il paese Italia, rappresentato dai diversi governi che si sono succeduti negli ultimi anni, ha accettato quando nessuno sembrava rendersi conto di quali possibili effetti sui futuri equilibri politici.   Come abbiamo appreso dai media, Popolare di Vicenza e Vento Banca sono state messe in liquidazione anziché in risoluzione come l’art. 18.1 del regolamento europeo avrebbe richiesto (v. al proposito l’interessante analisi di Morgan Stanley “Insolvency: the Interim Solution” del 26 Giugno). In questo modo, nella sostanza, mentre gli azionisti delle due banche sono stati penalizzati con il loro investimento a tutti gli effetti azzerato, lo stesso non è avvenuto con gli obbligazionisti “junior” che verranno rimborsati – da quanto è dato comprendere – con l’intervento congiunto dello Stato e di Intesa. Quest’ultima con un piccolo investimento di 60 milioni di Euro e con grande abilità negoziale è così riuscita a risultare come il vero “cavaliere bianco”.    Questa parte della soluzione, dal sapore politico, soprattutto in un periodo pre elettorale, è quella che mi piace di meno. Si continua infatti a considerare l’investitore retail come il povero ignorante (quello che una volta si chiamava il “parco buoi”) e come tale sempre da difendere in quanto raggirato dai cattivi consiglieri; eppure quante volte sentiamo la “signora Gina” vantarsi del fatto che il suo portafoglio rende l’x% ? Ricordo anni fa mio zio ottantenne che mi venne a raccontare che era così contento di aver investito nei bond argenti che rendevano quasi il 10%; quando gli feci presente che sul mercato i ritorni sono normalmente associati ai rischi sottostanti, mi fece un bel sorriso e mi disse: “tanto se poi le cose dovessero andare male vedrai che qualcuno ci metterà una pezza!”.    La domanda (temo retorica) che mi sorge spontanea in questo caso è perché il governo voglia far pagare il conto, invero limitato, alla comunità, invece di promuovere quello che normalmente si fa in altri paesi ovvero accelerando la ricerca di eventuali colpevoli del c.d. misselling. In questo modo il valore recuperato da coloro che hanno commesso abusi (e dai patrimoni di costoro) in tempi non biblici, porterebbe essere messo a disposizione dei frodati. Ovvero non sarebbe meglio per i poveri obbligazionisti retail, per l’Italia e la sua reputazione che semplicemente venisse garantita la certezza e la velocità del diritto?     Fatte queste breve considerazioni di massima, e mutuando la logica delle pagelle post partita dei nostri giornali del lunedì cerco di fare qualche considerazione su come i diversi attori della partita si sono mossi.

Intesa Sanpaolo: BUONO/OTTIMO.

Il management di Banca Intesa, come è normale  in una economia di mercato, ha colto un’ottima opportunità, presentando la propria offerta di 1 € in cambio della parte buona delle due banche venete ed ha chiesto che il governo si facesse carico dei crediti dubbi (i bad loans) oltre che dei costi di liquidazione del personale in eccesso. Un comportamento virtuoso e parte di una sana economia di mercato, oltre che industrialmente positivo, giacché permette di proseguire una progressiva concentrazione di un mercato eccessivamente frammentato per l’eccessivo campanilismo e, soprattutto, per logiche di spartizione del potere locale. Come è emerso in molti casi analoghi a quello delle due venete, per esempio le 4 banche poste in risoluzione, Tercas o MPS, essere banca del territorio significa, spesso, avere influenza sull’economia, posti nei consigli – spesso in violazione delle normali regole sui conflitti di interessi, – supporti, a volte incestuosi, tra attività locali e esigenze di finanziamenti non necessariamente profittevoli per gli istituti coinvolti. Dunque ben venga il consolidamento. Un unico appunto sul comportamento di Intesa mi pare essere – ma confesso che non sono riuscito a capire se tale richiesta abbia effettivamente preso corpo nell’accordo finale – la richiesta di far sì che nell’accordo rientrino anche i prepensionamenti dei dipendenti in eccesso della stessa Intesa. Sarebbe auspicabile capire quale siano i veri contorni di tale accordo, se effettivamente c’è stato.

Atlante: NON TROPPO BENE.

Dopo che il fondo è stato presentato ai mercati come la panacea per la soluzione dei cosiddetti crediti incagliati (gli NPL), abbiamo visto che la prima operazione del fondo è stata l’aumento di capitale delle due Venete.  Per onestà va riconosciuto al fondo guidato dal Professor Penati, che nella documentazione di presentazione del fondo, questa altra attività di Atlante era stata esplicitata, quindi non si dovrebbe trattare di una sorpresa.   A parte qualche articolo di stampa un po’ misleading sul ruolo di Atlante, non vi  è nulla di strano, se non fosse che, un qualsiasi fondo di investimento di mercato prima di fare un investimento così importante come quello nelle due Venete, avrebbe fatto una attenta due diligence. Così, evidentemente, non è stato; come conseguenza gli azionisti di Atlante, le principali banche italiane (ci sarà qualche conflitto per caso?) hanno svalutato la loro partecipazione nello stesso fondo. Se, quindi la scelta di investire nel capitale delle due banche venete è stata una “libera scelta” dei gestori del fondo, in un modello di libero mercato qualcuno dovrebbe chiederne loro conto. Se, invece, così non è stato, Atlante rappresenta un player anomalo, soprattutto per il futuro del mercato degli NPL a cui pare ora il fondo intenda dedicarsi (un offerta al 20% sugli NPL di MPS pare ancora una volta un’operazione un po’ aggressiva) e ciò nuoce gravemente all’immagine e alla trasparenza del mercato italiano e alla sua capacità di attrarre investitori internazionali di cui abbiamo molto bisogno.

Governo e Banca d’Italia: MALE (o meglio un buon risultato ottenuto con una cattiva metodologia, almeno da un punto di vista di mercato).

In effetti è stato possibile minimizzare i costi (politici e non) di una situazione che si sarebbe dovuta affrontare molto prima e con un minimo di lungimiranza. Non possiamo infatti dimenticare come, dopo la grande crisi finanziaria del 2008, i governi italiani che si sono negli anni succeduti e, con loro l’Istituto di vigilanza (altro soggetto il cui operato dovrebbe forse essere oggetto di qualche censura),  si vantavano di come il sistema italiano fosse “solido e diverso” in quanto non esposto ai prodotti derivati ed alle varie alchimie finanziarie che avevano messo in ginocchio i sistemi finanziari anglosassoni. Sulla evidente eccessiva frammentazione del mercato del credito, sulla scarsa resilienza del sistema in caso di crisi economica, sulla necessità di tagliare la commistione tra potere e finanza locale, nemmeno una parola nonostante agli addetti ai lavori fosse chiaro che il rischio di una crisi bancaria fosse elevato. Successivamente, quando il volume degli NPL ha cominciato a salire vertiginosamente, il governo ha continuato a minimizzare il problema tanto che, quando avrebbe avuto la possibilità di intervenire sul sistema con la creazione di una vera bad bank, tra l’altro con risorse non proprie – come hanno fatto molti paesi – prima dell’entrata in vigore delle nuove regole europee, la possibilità è stata rigettata come irricevibile per ragioni, anche in questo caso squisitamente politiche e miopi, visto che tale decisione avrebbe avuto come immediata conseguenza l’intervento della Troika. Questo è quello che è successo in paesi come la Spagna dove, nelle scorse settimane, il caso del Banco Popular, molto simile a quello delle banche venete, ha potuto essere risolto grazie all’intervento del FROB (la bad bank di sistema che l’azienda per cui lavoro ha contribuito a creare) e senza eccessivo sforzo finanziario già che a fronte dell’intervento della Troika la Spagna ha potuto ottenere finanziamenti di oltre 60 miliardi di euro. Se il governo Italiano si fosse adeguato oggi molti dei costi che gravano sui contribuenti sarebbero finanziati da terzi. Una nota positiva, ma naturalmente ancora soggetta ad una valutazione a posteriori, è che l’intervento del Governo potrebbe – così è accaduto in passato con la bad bank che rilevò i crediti del Banco di Napoli – dare origine a futuri guadagni.   Se il risultato di questa vicenda credo possa essere considerato nell’insieme come positivo, temo però che esso rappresenti un ulteriore conferma che, nel nostro paese, la certezza normativa sia considerata troppo spesso un optional. Le regole del gioco vengono infatti modificate alla bisogna, con buona pace di coloro che cercano di convincere gli investitori internazionali a considerare l’Italia come un paese in cui si può investire con tranquillità.

 

TAG: atlante, bail in, banca d'italia, banche Venete, Crisi bancarie, Popolare di Vicenza, Veneto Banca
CAT: Banche e Assicurazioni, Capitali

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