Obbligazioni, basta con le perdite inflitte al risparmio degli italiani

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18 Febbraio 2016

Nei primi tre anni di questo millennio i risparmiatori italiani hanno realizzato grandi perdite investendo in obbligazioni (ovvero prestando denaro a governi e Compagnie ritenute “solide”). Il primo grande caso di insolvenza risale al 2001 con il default del governo argentino che causò  grandi perdite a circa 450.000 risparmiatori italiani che avevano sottoscritto Tango Bond  per un controvalore complessivo di 14,5 miliardi di dollari (circa 12,8 miliardi di euro). Seguì la Cirio che a novembre 2002 dichiarò lo stato d’insolvenza e mando in fumo circa €1.125.000 di obbligazioni sottoscritte da  35.000 risparmiatori. Un anno dopo, a dicembre 2003, il crack della Parmalat mandò in fumo ben  9 miliardi di euro di obbligazioni che non vennero più rimborsate.

Insegno Matematica Finanziaria, un insegnamento di base per i corsi di laurea in Scienze Economiche, dallo scorso millennio e spiego agli studenti (futuri risparmiatori) i concetti sottostanti la valutazione del valore di un’obbligazione e come calcolare il prezzo, nonché il rendimento, della stessa in qualsiasi momento prima della scadenza finale (ovvero della data in cui il prestito verrà rimborsato). In generale in aula si fa riferimento a titoli obbligazionari emessi da Governi o Istituzioni pubbliche per cui, si ipotizza, di poter trascurare il rischio di insolvenza dell’emittente. Dopo i  fallimenti di Cirio, Parmalat e Governo argentino, presentare la valutazione delle obbligazioni (governative o societarie) trascurando il concetto di rischio di credito, ovvero di possibilità d’insolvenza del debitore, avrebbe reso il corso lacunoso. Il problema principale diventò  quindi quello di valutare adeguatamente il rischio di credito anche in strumenti così semplici.

Dopo i fallimenti di Cirio, Parmalat e governo argentino ciò che diventò chiaro ai miei occhi è che il rischio sotteso dalle obbligazioni emesse era noto alle banche che le offrivano ai risparmiatori, ma non veniva illustrato. Eppure erano strumenti finanziari semplici, non strumenti complessi. Strumenti di indebitamento per lo più a tasso fisso mediante i quali un’istituzione chiedeva un prestito che avrebbe rimborsato in un periodo prefissato garantendo una remunerazione apparentemente sicura ad un tasso di rendimento in realtà collegato alla rischiosità dell’Istituzione stessa (tassi poco superiori ai tassi associati ai depositi di conto corrente-nel caso di istituzione governativa, tassi molto superiori nel caso di istituzioni private proprio a causa del rischio associato a una possibile insolvenza del debitore).

In sede Comunitaria chi scriveva le regole per una normativa più trasparente sembrava ignorare questo problema e spostava l’asse sul concetto della complessità degli strumenti. E quindi si associava la rischiosità degli strumenti alla complessità delle strutture finanziarie. Nei documenti regolamentari venivano introdotti sinonimi a dir poco stravaganti per far finta di affrontare il problema della tutela del pubblico risparmio: prodotti strutturati, impacchettati, complessi e addirittura supercomplessi. A mio avviso ci si appellava alla forma senza affrontare il problema dal punto di vista della sostanza e fornire strumenti quantitativi con cui misurare tali rischi e presentarli ai risparmiatori. Era inaccettabile, specie perché le  banche regolarmente calcolavano tali rischi, con l’ausilio di analisi probabilistiche, che spesso venivano richieste a me o ai miei colleghi. Perché non condividere tali analisi e tali strumenti con i risparmiatori?

Bisognava solo  identificare quali fossero le analisi da condividere in modo da renderle immediatamente fruibili per i risparmiatori, senza dover richiedere che fossero in grado di comprendere la natura di una distribuzione statistica. In questo ambito avemmo anche diversi confronto con la Consob e trovammo particolarmente interessante l’approccio a 3 pilastri che l’Ufficio Analisi Quantitative, diretto da Marcello Minenna, stava sviluppando.

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L’approccio proposto evitava di introdurre nuove metriche o di ricorrere alle misure di probabilità reali che richiedono informazioni non facilmente disponibili in ogni momento ma proponeva di utilizzare il teorema fondamentale dell’asset pricing e cercare di estrarre tutte le informazioni possibili dal prezzo di uno strumento finanziario. Avvalendosi del calcolo probabilistico è possibile determinare preliminarmente la distribuzione di probabilità, ad un certo istante, sottesa al valore del prodotto finanziario. Nel caso di un’obbligazione ordinaria o subordinata è possibile calcolare la  probabilità di ogni possibile valore che l’obbligazione assumerà al momento del rimborso (o scadenza). Ciò può facilmente essere rappresentato in termini di denaro che l’investitore riceverà e di corrispondente probabilità di verificarsi.

La soluzione ipotizzata è particolarmente interessante in quanto non richiede all’investitore di leggere statistiche complesse ovvero interpretare il concetto di rendimento a scadenza  ma si limitava a dirgli, se hai investito 100 euro, dopo 5 anni potrai realizzare 150 euro con probabilità pari al 40% e 50 euro con probabilità pari al 60%. Informativa certamente comprensibile e dirompente che qualifica il 1° pilastro dell’approccio, meglio noto come scenari probabilistici.

Utilizzando il rapporto tra il prezzo e la sua distribuzione di probabilità implicita l’approccio identifica (2° pilastro) una rischiosità complessiva del prodotto sul suo intero orizzonte temporale. Tracciate le traiettorie che identificano il valore finale dello strumento è possibile stimarne la volatilità dall’emissione alla scadenza, e quindi individuare la rischiosità dello strumento che viene rappresentata su una griglia di 7 etichette qualitative di rischio da “molto basso” a “molto alto”, anche queste  di immediata lettura.

Il calcolo di tali scenari permette infine di determinare l’orizzonte temporale minimo associato allo strumento (il 3° pilastro), intendendo per orizzonte temporale minimo, il tempo (anni, mesi) necessario all’investitore per recuperare quanto speso inizialmente, come si dice solitamente il tempo perché l’investimento raggiunga il punto di pareggio (potremmo dire per cui l’investitore risulta “bloccato” su quell’investimento). Ciò viene effettuato analizzando la distribuzione dei tempi di primo passaggio – cioè del numero di volte che le traiettorie che costruiscono la distribuzione implicita nel prezzo raggiungono la parità dell’investimento iniziale ponderata per il tempo in cui si verifica questo breakeven.

Tale approccio permette di utilizzare il prezzo di un prodotto finanziario per fornire al cliente le informazioni fondamentali relative a:

1)     Liquidabilità dell’investimento in termini di orizzonte temporale

2)     Appetito per il rischio

3)     Potenzialità dei rendimenti

E pertanto l’utilizzo di tale approccio risulta aderente alla migliore prassi operativa e ricerca scientifica e va assolutamente promosso sensibilizzando gli organismi di regolamentazione e l’opinione pubblica. Ciò è stato fatto fondando, con alcuni colleghi, il Movement for Risk Transparency e mobilitando l’Accademia e la società civile per partecipare alle consultazioni e tentare di smuovere le acque.

Da allora è passata molta acqua sotto i ponti. La migliore dottrina e giurisprudenza ci ha seguito con importanti lavori e provvedimenti. La Consob – pressata da lobby poco lucide e che non avevano capito che il risparmio nazionale è il grande volano per il rilancio del nostro Paese e non il limone da spremere – invece dal 2011 ha abbandonato l’approccio a 3 pilastri. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

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TAG: banche, educazione finanziaria, risparmio, Risparmio gestito
CAT: Banche e Assicurazioni, gestione del risparmio

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