Ricostruire. O di macerie, libri e lambrusco

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2 Ottobre 2016

Il terremoto – sono sotto i nostri occhi le immagini peste di Amatrice – scuote i paesi, sventra le case, sgretola vite e memorie. Era il 2012 quando il terremoto scosse l’Emilia: la terra tra Modena, Mantova, Ferrara e Reggio ha tremato per giorni, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno.

28 le persone rimaste uccise, 350 i feriti, tanti tantissimi gli edifici – case, scuole, fabbriche, chiese – in macerie.

“Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio” cantava de Andrè. Sarà che maggio porta con sé la promessa dei frutti maturi, del sole alto nel cielo, della vita che trabocca e si tuffa nel mare. Anche se lì, nella “Bassa”, il mare non si vede.

E invece, per quell’estate, niente costume, ché anche la doccia, nelle case di Mirandola e Medolla, dopo il sisma, la si faceva con le scarpe da ginnastica. Ché la paura di una nuova scossa era difficile da lavar via e meglio essere pronti a scappare svelti per strada.

È passato poco più di un mese dal terremoto che ha squassato il centro Italia, mentre pigri rientravamo dalle ferie. E già l’attenzione mediatica, con l’arietta settembrina, sembra scemata.

In effetti, finisce che sappiamo sempre poco di quel che accade, una volta finito il tempo dell’emergenza. Sappiamo poco di cosa voglia dire ricostruire, ripartire, darsi appuntamento sulle macerie per tornare a vivere.

Io ne ho avuto un assaggio ieri, capitando a San Possidonio per un’iniziativa che insieme mi scaldava e strapazzava il cuore. San Possidonio è un piccolo comune in provincia di Modena, un paese messo in ginocchio dal terremoto del 2012.

A San Possidonio, nell’immediato dopo sisma, un gruppo di genitori, un gruppo di mamme, un gruppo di ragazze decide di fondare un’associazione che s’impegna a ricostruire ciò che è andato perso. “E non parliamo di edifici e costruzioni” spiegano “ma di luoghi e occasioni di aggregazione, momenti di gioco e creatività per i più piccoli. Occasioni per essere ancora e di nuovo comunità”.

Nasce così Un piccolo passo: incontri, laboratori, corsi dedicati a bambini, adolescenti, genitori. Non sto a raccontare del coraggio, della vitalità, dei sorrisi saldi malgrado le scosse: a raccontare quelle “giovane donni toste” ci aveva già pensato mia mamma nel suo blog di Vanity Fair. Faceva la psicologa, mia mamma. Nel 2012 aveva scritto un libro sui bambini e sul loro diritto a essere piccoli e nel 2013, a neanche un anno da quei giorni di maggio, fu invitata da Un piccolo passo a parlare di bambini e di come si parla, ai bambini, del terremoto “e dunque di perdita, di paura, di morte”.

Ci andò e lì incontrò le ragazze di San Possidonio, incontrò quella terra, incontrò Michele, anche lui psicologo, quello che si faceva la doccia con le scarpe per paura che la casa riprendesse a tremare. Ascoltò le storie dei loro molti bambini e poi tornò a casa raccontandoci della chiesa di Mirandola, della commozione, del senso di ingiustizia, del sapore rotondo del gnocco fritto bagnato di Lambrusco.

È nato un rapporto speciale, una complicità fatta di stima, d’intesa, di gusto per la vita. Ché la ami di più, la vita, se sei andato a ripescarla sotto la polvere e i calcinacci.

E poi a San Possidonio ci sono finita anche io, perché le ragazze di Un piccolo passo, sostenute dal mitico Rudi – il Sindaco dal piglio energico ma cordiale –  e dall’amministrazione, ci hanno fatto una proposta che ci ha riempiti di felicità e storditi di malinconia: intitolare a mia madre, che da poco più di due mesi non c’è più, la biblioteca comunale.

Allora sabato mattina siamo partiti. Cinque, sei, otto macchine: non so più quanti fossimo da Milano e quanti invece siano arrivati lì partendo da Treviso, da Bologna o da Fucecchio. So solo che eravamo insieme, tra gli scaffali di libri della biblioteca, accanto al Palazzurro, il palazzetto dello sport, al Micronido “Le Coccinelle” e alla scuola d’infanzia “Gianni Rodari”.

Un polo scolastico, culturale e sportivo inaugurato nel 2014 che sta lì a raccontare l’impegno, la fatica, la ricostruzione.

Un posto dove per strada puoi trovare “Il muro della gentilezza”: una specie di grande bacheca organizzata con scatole e ripiani dove i bambini possono lasciare e trovare materiali scolastici, libri, giochi. Basta seguire alcune semplici regole – prima fra tutte quella per cui si prende qualcosa solo se ci si impegna a donare – spiegate in italiano, inglese, cinese e arabo.

E allora, mentre prendo fiato tra i cuscini colorati nella stanza della biblioteca dedicata ai bambini attratta dal titolo 1,2,3 cacca!, penso che da questi parti non hanno avuto bisogno di aspettare che la sharing economy diventasse di moda per conoscere la collaborazione e praticare la condivisione.

Che da queste parti, con buona pace dei proclami maldestri da fertility day per cui la fertilità di una donna è giudicata un bene comune mentre i figli – una volta sfornati – tornano a essere un fatto privato, sanno cosa vuole dire considerare i bambini, non solo i propri ma quelli di tutti, un bene comune. E fertilità vuol dire esser capaci di far germogliare idee, saperi ed energie intorno a un senso profondo di comunità.

Che da queste parti, sarà che è forte la tradizione tessile, sanno davvero cucire insieme spicchi e brandelli di vita, strappandoli alla fine, alla morte, al mai più. Sarà per quello che ora tra i muri colorati e forti e nuovi di San Possidonio spunta anche il nome di mia mamma.

Il Muro della gentilezza di San Possidonio

Il Muro della gentilezza di San Possidonio

TAG: Bambini, comunità, emilia romagna, Irene Bernardini, terremoto
CAT: Beni comuni, relazioni

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