Intercultura e amor di patria – Banksy saluta i nuovi direttori dei musei MiBACT

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25 Agosto 2015

“Un paio sono stimabilissim*, un paio molto capaci, un paio che il ciel l* guardi, un paio non lo so ma diamo loro fiducia; purtroppo, sono un po’ più di un paio le mancate nomine di candidat* eccellenti già direttori in Soprintendenza che, perciò, rappresentano perdita vera per il Paese”: così, privatamente, Autorevole Qualcun sugli esiti del recentissimo bando internazionale MiBACT attraverso il quale sono stati complessivamente selezionati 20 direttori di musei sul territorio italiano. Quanto al fatto che tale provvedimento sia stato possibile grazie all’incapacità di entrare nel merito della politica, suggerirei di leggere con l’ottimismo della ragione almeno il caso più evidente, Firenze, dove – tra le numerose e qualificate istituzioni internazionali dedicate alla storia dell’arte – ha sede il germanico Kunsthistorisches Institut – “il Kunst” per tutt* coloro che fruiscono di questa biblioteca di storia dell’arte, struttura di vera eccellenza – e dove due (Uffizi e Accademia) dei tre nuovi direttori sono appunto tedeschi; se tutto ciò non fosse avvenuto per buona politica avrebbero ragione i facinorosi che parlano di outsourcing o peggio di commissariamento culturale.

Va pure segnalato che, nel tam-tam di stampa nazionale ed internazionale che questo provvedimento voluto dal Ministro Franceschini ha suscitato, stanno i pensieri di patriot* – incluso qualche doppio passaportista – che vorrebbero direttor* dei musei italiani esclusivamente italiani, nonostante l’Italia sia parte della Comunità Europea. Che non manchi dunque, quel partito separatista che tanto ha dato al Paese stando al governo durante le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, di proporre la riscrittura in declinazione localistica ulteriore di cotanto bando, ché certo a Brera ha da andare un* milanese, all’Archeologico di Napoli un* napoletan*, e via delirando; finalmente, col riscritto bando, sarà anche possibile respingere da subito candidat* bi e trisessuali, lesbiche e gay, animali umani in regime di coppie di fatto, migranti ovvero negr*, cinesi etc.
Dopodichè, avendo alcuni dei nuovi direttori con passaporto italiano avuto una opportuna quanto necessaria carriera all’estero, è bene ricordare che l’arte, come la scienza, è del mondo, per cui anche la nenia del “rientro dei cervelli” sarebbe bene finisse per i musei, come per la ricerca e l’università.

Ora, se l’obiettivo del Ministro è la “valorizzazione” – termine che non trova riscontro nella letteratura museologica internazionale – quindi anche l’allargamento della base di fruizione dei musei italiani, l’INTERCULTURA emerge come passo cruciale. Saper proporre e mostrare, ad esempio, l’archeologia classica ed il suo remake rinascimentale, o il barocco, o l’Ottocento ad un pubblico di diverso background è lavoro da cominciare; esso ha profondamente a che fare anche con la modalità curatoriale ed allestitiva del museo individuandone al contempo il forte punto di crisi in quanto istituzione d’Occidente. Quanto questo tema sia fondamentale lo dice la sobria banalizzazione attuale esito del riallestimento della Pietà michelangiolesca al Castello Sforzesco milanese – che ci priva così del brillante risultato del dialogo tra Costantino Baroni e BBPR. Il quale era lavoro che stava al pari di altri esempi museografici italiani noti a livello mondiale, messi a punto congiuntamente da soprintendenti-direttori ed architetti, quali quelli curati da Caterina Marcenaro e realizzati da Franco Albini a Genova, o ancora da Licisco Magagnato e Carlo Scarpa al Castelvecchio di Verona. Per il resto, significativamente sola tra gli architetti di origine italiana ad aver lavorato sul tema intercultura nei musei è stata una donna migrante, Lina Bo Bardi, che l’ha fatto a suo tempo in Brasile con uno speciale occhio all’Africa; non meno del lavoro museografico at large di Renzo Piano, la pionieristica ricerca di Lina Bo Bardi è oggi di riferimento nel mondo.

Dunque, per cogliere l’allargamento di target di cui sopra – insieme all’autonomia amministrativa – servono risorse ragionevolmente adeguate, affinchè assieme ai nuovi direttori-allenatori siano rafforzate le rispettive squadre, troppo a lungo oggetto di demenziali “tagli” e conseguente isolamento. Servono anche competenze ulteriori, di tipo antropologico ed etnografico in primis. Serve che il vitale territorio dei piccoli musei non sia abbandonato, serve lucidità alternativa ad operazioni tipo “Grandi Opere” (Autorevole Qualcun ritiene che “la copertura del Colosseo sarà il Ponte sullo Stretto dei beni culturali”) per le quali il Bel Paese ha dimostrato incapacità assoluta, o anche peggio.
Dunque è davvero tempo di pensare a musei e beni culturali secondo un modello sostenibile? Ad esempio, ad una nuova stagione di mostre che esplorino con ragionevoli costi allestimenti site-specific rispetto ai luoghi museali stessi, lasciando al termine opere restaurate ovvero allestimenti rinnovati e pertinenti, quindi fruibili in modo allargato ed interculturale? Questo perchè gli esiti da “comunicatori” del generico global – fatti livellando verso il basso con slogan, li abbiamo visti e non funzionano; di certo, non nei musei.
Piuttosto, serve imparare a mettere a disposizione del pubblico conoscenza complessa, quindi attrattiva per fruitori diversi – viaggiatori, turisti e migranti compresi. Questo anche perchè esiste l’urgenza planetaria di testimoniare nel bene l’evidenza che i beni culturali ed i musei hanno garantito nel male – basti pensare alla mafia nel 1993 (bombe agli Uffizi, a San Giorgio al Velabro, a San Giovanni in Laterano e al PAC Milano) come all’Isis oggi, fino alla decapitazione di Khaled Asaad, già direttore del sito di Palmira, martedì 18 scorso. Perciò musei e beni culturali possono essere la chiave per azioni di inclusione sociale anche in sapiente dialogo con luoghi “esclusivi” quali fondazioni/collezioni private che di fatto tuttora proseguono la logica della Wunderkammer.

Ha senso dunque anche raccogliere la dissacrante ibridazione – ancorchè tutta Occidentale quindi assai meno consapevolmente orientata all’intercultura rispetto a precedenti formidabili quali ad esempio Le Musée Precaire Albinet (2004) di Thomas Hirschhorn – che è nello statement di Banksy lanciato tre giorni fa con Dismaland per cui “Il museo è un luogo che non funziona per la fruizione dell’arte”: esso diventa utile traccia site-specific. Infine, è il lavoro di qualcuno che – nato in quel paesello e poi divenuto cittadino del mondo – vi riporta pensieri nuovi fruibili da tutti: insomma, un patriota.

Giacomo “Piraz” Pirazzoli

TAG: banksy, dario franceschini, direttori musei
CAT: Beni culturali, Musei-Mostre

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