Sì alla cultura della vita

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28 Febbraio 2017

La sofferenza, specialmente se legata ad una malattia, è ultimamente un mistero e perciò è impossibile da pesare e da giudicare. E’ doveroso dunque che sul suicidio assistito di Dj Fabo cali un rispettoso e pietoso silenzio, ma quando accadono fatti di questo tipo mi vengono sempre in mente, per contro, quei tanti testimoni luminosi che decidono non solo di rimanere a farci compagnia su questa terra, ma desiderano farlo da protagonisti. Penso ad Angelo Carboni, l’insegnante di inglese immobilizzato dalla SLA che addirittura scrive libri e tiene incontri; oppure ad Andrea Turnu alias Dj Fanny, anch’egli malato di SLA che ha sbancato iTunes col suo brano “My window on my music”; oppure ancora Matteo, il diciannovenne disabile inchiodato ad una carrozzina che attraverso la sua tavoletta ha chiesto a Dj Fabo di non mollare.

C’è un folto e silenzioso esercito di disabili che scelgono di convivere con la sofferenza, il dolore, la frustrazione, l’umiliazione, e con loro parenti, amici, fidanzate e fidanzati, mogli e mariti, figlie e figli… Cos’è che fa urlare costoro “io non voglio morire”? Sono pazzi, masochisti o cosa? In questi giorni si parla tanto di libertà: di morire, di abortire, di obiettare. Ma la libertà è un bene tanto prezioso quanto fragile, e perciò va usata con cura, va preservata dagli eccessi che rischiano di trasformarla in un’iperbole mostruosa. Giovanni Paolo II nella Evangelium Vitae affermava che «rivendicare il diritto all’aborto, all’infanticidio, all’eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà».

Perciò più che di libertà forse è più giusto parlare di dignità, cioè se si possa stabilire comunemente una soglia sotto la quale una vita valga la pena essere vissuta o meno. Purtroppo il nostro tempo si basa sulla “cultura dello scarto” come ama chiamarla Papa Francesco: la società è strutturata per rendere impossibile la vita ai più deboli, che perciò rimangono ai margini della società. Pensiamo agli anziani, agli ammalati, ma anche ai bambini e ai disoccupati. A tal proposito sempre Giovanni Paolo II sosteneva che «si fa sempre più forte la tentazione dell’eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine “dolcemente” alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte”, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore».

Di fronte a questa “tentazione di morte” che va contro ogni istinto umano di sopravvivenza forse è opportuno sostare nella domanda «perché vale la pena vivere?» e provare a trarre insegnamento da coloro che si aggrappano con tutte le forze alla vita e a diventare martiri della mentalità comune contemporanea proprio non ci stanno.

TAG: bioetica, Dj Fabo, eutanasia, giovanni paolo II
CAT: Bioetica, diritti umani

Un commento

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  1. silvius 7 anni fa

    Ha ragione, bisogna crepare col rantolo solo perché lo dice Lei.
    Si legga le parole della moglie del signore che il giorno seguente ha scelto lo stesso destino di Fabo, ed eviti di pontificare su cose che non La riguardano.

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