Storie di ex: Marco Ballotta, ad esempio, un numero 12 che era un numero 1

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28 Febbraio 2016

Tratto da “Ex – Storie di uomini dopo il calcio”, Matteo Cruccu, Baldini & Castoldi, In libreria dal 17 marzo 2016

(…) Già, funzionava così nel 1980: il portiere di riserva era il dodici, e il dodici era il dodici, mentre l’uno era l’uno. Il dodici poteva essere uno ancora più vecchio del vecchio, la panchina preludio alla pensione, oppure poteva avere l’età per essere il nipote del vecchio. Le regole erano intangibili e incontestabili: al vecchio si porta la borsa, il vecchio non si contraddice, il vecchio ha sempre ragione. Nel 1980 l’anagrafe aveva ancora un senso. Poteva essere solo così. Al vecchio difficilmente rubavi il posto, era quasi impossibile: c’è una lunghissima teoria di giovani diventati vecchi aspettando che i vecchi si facessero da parte. Il più spietato di tutti è stato il totem di Marco: lo fissava anch’egli, muto, dalle pareti della sua cameretta, tra la tappezzeria e l’armadio coi 33 giri della Febbre del Sabato Sera. Dino Zoff. Li uccideva tutti, i dodici, uno a uno, implacabilmente: Alessandrelli, Piloni, Bodini. Lasciava meno delle briciole, un quarto d’ora dell’ultima partita di campionato, quando la Juve aveva già vinto il suo ennesimo scudetto. E magari in quel quarto d’ora che ti doveva sembrare l’occasione di una vita intera, sbagliavi, ti impaperavi e la seconda chance chissà quando sarebbe arrivata.

Perché Dino non si ammalava e non sbagliava mai. E se sbagliava, sbagliava una volta sola, come ai tristi Mondiali in Argentina, 1978, con l’olandese Brandt a punirlo da lontano e tutti a gridare, urlare che Zoff non ci vede più, che è troppo vecchio per questa Nazionale di giovani. Ma ci vedeva benissimo, invece, come lo avrebbero visto benissimo i brasiliani, appena qualche anno dopo, mentre alzava la coppa. C’era anche Marco a suonare il clacson a Casalecchio e a Bologna in quell’estate del 1982. Marco però non voleva morire come Alessandrelli e Piloni e Bodini. Via da Bologna sull’Emilia, scese a Modena e ci rimase sette anni, tornò un attimo indietro, a Cesena, dove c’era un certo Lippi, lì, Paul Newman, lo chiamavano, e dicevano che si sarebbe fatto strada. E poi tornò ancora a Parma. Parma.

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Che dolore quel cancello chiuso a Collecchio. Gli annunci funebri. Com’è possibile che la città dei Barilla, delle eccellenze e dei distretti, quella che i settimanali ci facevano un servizio all’anno – «Viaggio nella città più ricca d’Italia» – abbia fatto marcire così la sua squadra di calcio? Perché se lo meritava. La gente è stata implacabile col Parma, come non lo è stata con Firenze o con Napoli quando hanno vissuto destini simili: se lo merita il Parma di morire, di giocare con la Correggese o il Fiorenzuola, il Tanzi ha mandato alla malora i risparmi di gente che lavorava e che nel miracolo Parmalat ci aveva creduto. Li ha traditi, buttando via i loro risparmi in una squadra di calcio, in quella squadra di calcio. La nemesi è quella, e la vendetta è giusta. Marco li capisce, hanno il sangue del suo stesso colore. Gente di due province più in là, ma tra emiliani ci s’intende. Li capisce, ma non può condividerne l’odio. Parma è la sua gioventù, perché fi nanche Marco è stato giovane. Parma sono i capelli che aveva, i sacchetti della spesa, il Parmigiano e il rosso. Parma è la città che si dà, intera, appuntamento a Wembley, e Wembley solo a nominarlo qualche anno prima avresti sorriso. Parma è Nevio Scala, un signore veneto che sembra uno zio, uno di famiglia, che passa il tempo libero coltivando tabacco. Parma è quel pazzo di Tino Asprilla, la vita che litiga col genio. Parma è Thomas Brolin, altroché gonfiore, quando si trascinerà tra un tavolo di poker e l’altro. Ma questo è il poi, allora tutti celebrano la provincia che diventa signora, il miracolo, sì il miracolo: il miracolo-Parma. In tre anni dal niente al tetto del mondo. Dal derby con la Reggiana all’Atletico Madrid. Dalla supremazia della Bassa, al regno d’Italia, alle sfide con loro, i nemici di tutti, la Juventus.

«Cosa ne sapevo io che Tanzi stava truffando migliaia di persone?» dice Marco. Lo hanno scoperto, poi, degli altri, e menomale che lo hanno scoperto. Allora erano affabili, gentili, chiedevi quello che pensavi di meritare e loro firmavano il contratto senza battere ciglio. Erano il sogno di qualunque calciatore. E poi a Natale i Tanzi invitavano tutti nella loro villa di Collecchio, ma erano come noi, pensa Marco, erano gente comune, non si appartavano con i dirigenti o i senior, bevevano con noi, mangiavano con noi. A Parma Marco è stato giovane, lui che per tutti è il vecchio. E uno non può rinnegare, mai, la propria gioventù. Qui dove tutto fi nisce, tutto è iniziato: i campi in terra battuta, anzi no, in erba sintetica, ché in Emilia sono avanti, le tribunette ricavate coi tubi Innocenti, quando ci sono, l’arbitro che fa l’assicuratore al paese a fianco, due anziani, sempre quelli, che han deciso di trascorrere l’imbrunire guardando partite che nessun altro guarda.

Ci pensi, Marco? Ci pensi che avrai 54 o 55 anni quando incontrerai il tuo Parma e potresti surclassare Matthews? Già, Stanley Matthews, l’inglese, il nonno del football mondiale, sinonimo di eternità, perché lui di anni ne aveva 50 quando rimise per l’ultima volta gli scarpini con il suo Stoke, in un lontano 1965. Un record finora inamovibile. Che di record ne hai già macinati quasi senza accorgertene, Marco. Hai battuto Dino Zoff. Sì, proprio lui, quello di cui avevi il poster da bambino. Lui sì che era stato capace di smettere, lui aveva messo la giacca e la cravatta, aveva fatto l’allenatore alla Juve, dove non l’avevano capito, e alla Lazio, dove si era fatto presidente. Quando ci hai giocato, e già eri vecchio, Dino ti ha proposto di allungare il contratto, di dimenticarti giacca e cravatta, una delle pochissime volte che hai sudato freddo in vita tua, ti sei emozionato, hai pianto dentro e hai bofonchiato: «Faccia lei, presidente, ci mancherebbe: faccia lei».
Ecco: Dino, il monumento, il totem, l’idolo, lo hai superato – guarda te – in un derby, minore per tutti gli altri, importante per te. 41 anni e 203 giorni tu, 41 anni e 76 giorni, Dino. Eri diventato il più anziano giocatore di sempre in serie A. Non te ne sei neanche accorto, non hai pianto o festeggiato. Non per questi record, buoni solo per gli statistici, per gli annuari, per gli album delle figurine. Marco Ballotta ha imparato da suo padre che, sia in campo o in cantiere, bisogna fare il proprio lavoro come si deve, e anche come lo si deve fare. E tutto quello che ne viene è pura conseguenza, niente più.

Così il Dino, lo hai battuto una volta e altre 47, spingendoti oltre le colonne d’ercole dei 44 anni (e 38 giorni). Quarantasette volte. E sette, invece, sette volte hai battuto quello della Champions, ne avevi 43 e 253 giorni quando hai limato verso l’alto, per l’ultima volta, pure questo primato al leggendario Bernabeu, contro il Real che forse vedevi alla televisione ai tempi di Modena, Real maledetto, Santillana maledetto, l’Inter vince e poi viene distrutta al Bernabeu, ma tu eri vagamente juventino, che te ne fregava a te, Marco. Ecco l’ultima a 43 (e 253 giorni), ma se devi ricordare quella partita, oggi che in trasferta si va in Punto e ci si riaccompagna a casa l’un l’altro, ti rincresce di averci perso al Bernabeu, non di aver scolpito un’altra targa buona per gli annuari e per gli album. Forse è quella la tua forza, pensare sempre al poi e non al prima, perché, alla fi ne, è così che si sovvertono le regole del gioco, Marco. Da vecchio non hai fatto il vecchio, da vecchio hai fatto il giovane. Potevi accontentarti, potevi scaldare le panchine, fare la chioccia del gruppo, non giocare mai, se non quel quarto d’ora a fi ne stagione, senza preoccuparti di impaperarti e di sbagliare, perché tanto, a te, vecchio, te l’avrebbero perdonata. «È importante per il gruppo, più che per il suo effettivo contributo in campo. È importante perché tranquillizza, rassicura il titolare.» Ma a Marco Ballotta, pur senza mai dire una parola più del necessario, il dodici è un numero che non è mai piaciuto. All’Inter, alla Lazio, al Modena, non si è arreso alle leggi della natura, alle leggi del lavoro. Non ha tranquillizzato il titolare, non lo ha rasserenato, ma non ha fatto nulla per metterlo in difficoltà, semplicemente, quando c’era bisogno, Marco Ballotta c’era sempre…

 

(Tratto da “Ex – Storie di uomini dopo il calcio”, Matteo Cruccu, Baldini & Castoldi,  In libreria dal 17 marzo 2016)

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