Trainspotting 2, l’alienazione lunga vent’anni

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5 Marzo 2017

Trainspotting è un treno un corsa che ancora non si vuole fermare. La storia di 4 tossici che dopo 20 anni tornano a fare i conti con il proprio destino, in maniera abbastanza fallimentare.

Scrivo subito ciò perché aspettarsi un altro film dedito unicamente alla droga giovanile e alla sue nefande conseguenze non ha senso. I protagonisti continuano a vivere vite al margine che come una “Via di Carlito” tornano all’inizio della corsa nonostante i goffi sforzi.

Questo è il primo segno che lascia la droga e Boyle/Welsh lo dicono chiaro: lo schifo continua a seguirti, entra nel tuo corpo e non se ne va. Nemmeno le rate di un mutuo sono così perseveranti.

Scegliere una vita noiosa è meglio che farsi perché dà sempre la lucida possibilità di sistemare i problemi, mentre eroina e cocaina sono la fuga angelica, un “giorno perfetto” alla Lou Reed, da un vuoto presente e comprensibile che non lascia scampo.

Se il primo Trainspotting introduceva nel cinema una visione in prima persona, sarcastica e non stigmatizzante la figura di “chi si fa in vena”, della generazione adolescente fra ’80 e ’90, T2 giudica ma senza puntare il dito.

4 amici al bar che fanno i conti con pessime decisioni, denigranti, un passato che non riescono a scrollarsi di dosso. La droga allevia dolori ma fa schifo: non è un giudizio, è una semplice constatazione; nuda e cruda quanto lo era lo stimolo a sceglierla per fuggire via da un giovinezza infausta.

Mark torna dall’Olanda e corre in mezzo alla natura “dei grandi spazi verdi” ma ha il rimorso del rapporto con i genitori andato a puttane, e l’aver iniziato alla vena l’ormai defunto Tommy; Spud ama la sua famiglia sinceramente e con una tenerezza rara, ma continua a farsi; Sick Boy è sempre il solito borioso che tutto vuole e nulla stringe, passando dall’ero alla coca, spacciatore e pappone.

Begbie. Begbie è la figura più “ancestrale” dell’intera opera: un cane rabbioso schiumante vendetta, covata durante un ventennio di carcere. E’ lui stesso, l’unico che non si è mai drogato (ma rubava e picchiava), a rappresentare “il demone della droga” di ritorno dagli inferi. E’ lui la vita con cui il gruppo di “finti amici del cazzo” dovrà in un certo senso fare i conti; abbastanza pulito fisicamente da mettere sul tavolo la comune dose di errori.

​La rabbia per il suo passato di violenza è forse la forma più alta di sincerità in T2, perché non cerca di nasconderla sotto la droga ma la sfoga brutalmente. Tutti sono così, ma lui almeno ha il coraggio di esserlo fino in fondo.

Scrittura a parte merita pure Spud, da sempre il buono sfigato della compagnia, quello che se “lo prende dove non batte il sole” (passatemi il termine vista la pellicola).

Alla fine e per assurdo lui è l’unico ad avere la fiducia di chi gli sta attorno: subisce, osserva ma comprende e si fa ben volere, lasciandosi l’unica vera porta aperta di contatto umano al di fuori della sua condizione. Forse essere teneri e mollicci non è così negativo, e mi piace Boyle/Welsh lo abbiano sottolineato. La bontà ri-paga.

Trainspotting 2 non è un film sulla droga, ma su ciò che la droga produce in vent’anni. Un film nostalgico non nella maniera di quattro ragazzotti che vanno in fibrillazione per il nuovo Nokia 3310 o la re-union degli Stone Roses; la nostalgia fa schifo, è da combattere come la peste, è un passato da portarsi appresso ma dal quale emanciparsi. Un continuo MA in un periodo di grandi cambiamenti: “non siamo stati ancora toccati dalla rigenerazione” dice Sick Boy sul suo pub in una delle zone degradate di Edimburgo, e penso ai palazzi fatiscenti dove vive Spud.

Il mondo perfetto degli anni ’90, il consumo sociale degli anni della Thatcher, si rifà il trucco, chiede una mano all’Unione Europea per far ripartire il pub, simbolo dello storico porto dove giace in mezzo ai rottami, spingendo sul valore identitario, storico, e Ora sociale. Società che all’epoca del primo film “non esisteva”, come non esistevano l’alienazione e la solitudine di Mark e soci, “scegli la vita”. Forse oggi scegliere la vita è meglio.

T2 è perfettamente collocato nel 2016 perché mostra contestualmente, a livello ambientale, ciò che rimane della sbornia consumista, di un’Europea più dei capitali che delle persone. Di un mondo, che già si diceva in T1, sta continuando a cambiare. Il film è un’operazione nostalgia al contrario: il messaggio a chi è giovane Oggi per scegliere la vita senza le logiche che in passato l’hanno massacrata; le logiche che hanno costretto un gruppo di ragazzi a scannarsi, tradire, rubare, drogarsi, per emarginazione ed alienazione.

La medesima forma di alienazione cantante da Cobain nello stesso periodo, e che Ora, nel post sbornia, sta venendo alla luce, come tutto l’inquinamento prodotto nei favolosi anni Ottanta e Novanta. Decenni idolatrati anche da generazioni come la mia (1988) che gli ha vissuti senza la dovuta consapevolezza perché s’era piccoli.

T2 lo schiaffa in faccia: il vintage di quell’epoca fa schifo, è inutile e trash, T1 era lo schifo su pellicola. Incazzatevi, ragionate, ponderate, scrivete e andate avanti. Non vivete nell’illusione MA costruitevi una possibilità di fuga. T2 è per chi ha 16, 20, 30 anni Oggi.

La colonna sonora? Sempre perfetta, dalla quale cito la Fat White Family – Whitest Boy on the Beach.

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CAT: Cinema

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