La generatività sociale perchè 1+1 faccia 3

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18 Novembre 2017

Torino, Social Festival 2017 di Animazione Sociale, rivista del Gruppo Abele. Dal 15 al 18 novembre va in onda una 4 giorni dedicata al “Fare società oggi” per “socializzare i problemi, socializzare le opportunità” come recita il sottotitolo dell’evento.

Per me che mi occupo da tempo di processi partecipativi e interventi territoriali costituisce una boccata di ossigeno. Un’occasione preziosa per ascoltare, ragionare di relazioni, reti, partecipazione, fiducia, politiche pubbliche, progetti e processi locali. La vivo un po’ come una corsa rivitalizzante a bordo mare. Una maratona concettuale che si svolge in un paesaggio di transizione che porta a dar corpo ed anima a concetti e pratiche; intuizioni che si fanno abiti mentali con tanto di mappe e riferimenti per affrontare il percorso. Abbiamo sempre più bisogno di modelli organizzativi, metodi e risorse per promuovere davvero, passo dopo passo, occasioni di generatività sociale per accrescere la qualità delle politiche pubbliche per dare risposte chiare e convincenti all’altezza del vivere quotidiano; risposte per le quali serve darsi un’intenzionalità precisa.

I discorsi circolati in queste giornate torinesi pongono questioni e forniscono risposte importanti. Fanno maturare un’intenzionalità che nasce dalla riflessione sul lavoro quotidiano svolto, sulle sue prospettive e sulla rielaborazione della strada battuta. Per questo penso che occorra continuare a correre, insieme a molti altri, con tenacia e umiltà, coinvolgendo persone, gruppi locali ed istituzioni nel trovare soluzioni e modelli organizzativi adeguati. Soluzioni da costruire insieme trasformandole in ossessioni positive da portare fino in fondo e non in discorsi vacui per campagne elettorali o clave da agitare contro gli avversari politici nei talk show che imperversano nell’etere (e nel parlarsi addosso dei social network).

Vedere, parlare, capire, rappresentare, narrare, fare esperienza non basta, non è azione sociale e politica all’altezza delle sfide del nostro tempo. Occorre operare per definire in modo nuovo le politiche pubbliche. Bisogna essere ossessionati da politiche, a partire da quelle locali, da portare avanti con metodo e giudizio: pensandole e curandole perché diano effetti materiali, ricadute positive tangibili.

Ricollego questa premessa ad alcuni spaccati della discussione torinese con la pretesa soggettiva di riportare spunti che mi hanno colpito in maniera particolare.

Giovedì mattina Mauro Magatti a conclusione della sessione plenaria fotografa “la generatività sociale fatta di desiderio, di fare incominciare, dare inizio, creare, appassionarsi ed intraprendere”. La generatività come “movimento speculare rispetto al consumare che implica invece il portare dentro, l’accumulare. La generatività sociale ha a che fare con 3 movimenti: 1) il mettere al mondo, 2) il prendersi cura e 3) il lasciare andare. La vita sociale si svolge nel tempo; la generatività ha anzitutto un’implicazione individuale ma diventa paradigma sociale che può aiutarci a ripensare in profondità le organizzazioni, i luoghi e le politiche promuovendo meccanismi di reciproco vantaggio, meccanismi cooperativi”.

Giovedì pomeriggio la partecipazione al workshop dedicato alle “Imprese sociali di comunità” con un focus su quella parte del mondo della cooperazione sociale che “è in cerca di nuove imprenditorialità capaci di reinterpretare la sfida originaria: un’economia a servizio dei diritti di cittadinanza e dello sviluppo delle comunità”. Si tratta di andare ben oltre la logica dei bandi al massimo ribasso per la fornitura di servizi sociali o quella di bandi per progetti sociali con il fiato corto definendo invece risposte di sistema durevoli e collaborative (a tutti i livelli). Le imprese sociali di comunità costruite come occasioni per ridefinire le economie dei luoghi promuovendo reti di relazioni economiche e sociali strategiche a più ed a diversi livelli. Reti fatte di patrimoni materiali ed immateriali, domande di mercato, bisogni sociali e necessità di governance; sforzo continuo e coerente di coordinamento delle politiche viste all’altezza della realtà quotidiana. “Le esperienze locali in questo settore stanno già generando architetture a partire dalla capacità di inventarsi cose per continuare ad abitare bene (stare bene) i luoghi (città, campagna, montagna…) riallestendoli dal basso” (Giovanni Teneggi di Confcooperative). Mentre sento tutto questo ripenso a Bruce Chatwin e alla dimensione esistenziale della  domanda “che cosa ci faccio qui?”. Una suggestione affascinante per fotografare e dare speranza alla vita quotidiana delle persone in un quartiere milanese nel quale ho lavorato; anziani, italiani, stranieri, giovani, bambini, malati di mente. Il “che cosa ci faccio qui?” che è un richiamo per trovare, nello stesso tempo, un’ottica di operatività territoriale e di risposta a bisogni e desideri degli essere umani che vivono e abitano quella parte di città. Il “che cosa ci faccio qui?” che tiene insieme il bisogno di essere ascoltati, di trovare punti di riferimento, di intrecciare relazioni e di riabitare i luoghi.

Venerdì mattina mi ha colpito la riflessione di Michela Marzano sulla fiducia: “non c’è fiducia negli altri e nell’altro se non c’è consapevolezza del proprio valore, della propria identità, indipendentemente dalle aspettative dell’altro”. A seguire Leonardo Becchetti  che esorta ad “andare oltre la tradizionale separatezza nel rapporto tra mondo no-profit e profit per valorizzare relazioni nei territori promuovendo un’economia civile generativa”.

Nel pomeriggio confronto dedicato al tema “Amministrare dal basso, amministrare dall’alto?” che è il dilemma di tanti amministratori locali per il quale una via d’uscita è rappresentata dal riconoscere che le sperimentazioni più generative si hanno laddove la politica locale governa i territori con le reti sociali e dei servizi. Una sperimentazione  come quella delle Reti sociali del Comune di Bergamo portata da Maria Carla Marchese. Esperienze che crescono coltivando una capacità di apprendimento da parte delle organizzazioni che mette in gioco il personale politico, quello amministrativo passando per i gruppi locali ed i cittadini coinvolti nei processi partecipati. Un momento di confronto che ha messo il punto sulla natura talvolta improvvisata, tal’altra impropria e di facciata di una serie di processi partecipativi. Per questo ci si trova d’accordo nel concludere che “occorrono consapevoli modelli organizzativi, pensieri e risorse. Si tratta di definire, in maniera condivisa, problemi e obiettivi per poi passare alla capacità di co-progettare, co-gestire con modelli e pratiche convenienti e convincenti” (Simone Lucido). Per questo penso che non ci siano scorciatoie da prendere e nemmeno brutte abitudini consolidate da reiterare come la scelta di leadership locali a cui affidarsi per chiudere presto i discorsi, la partecipazione come abbandono del campo da parte della politica.

Insomma questioni complesse, come quelle che si affrontano nei luoghi investiti dalla crisi economica e dal mutamento dei paesaggi urbani e sociali “necessitano di soluzioni articolate che vanno oltre la spontaneità, la buona fede, le emergenze a cui far fronte”. Per questo servono perseveranza, intenzionalità intelligente e soprattutto capacità di apprendimento dalle esperienze realizzate. “La trasversalità delle politiche e delle relazioni è una miniera a cielo aperto da esplorare per promuovere processi generativi finalizzati appunto a moltiplicare le opportunità del sociale”. Da qui la possibilità che 1+1 faccia 3!

 

 

TAG: cooperat, partecipazione
CAT: Cooperative, economia civile

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