Panem et circenses – Il capo, il popolo e le folle

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13 Febbraio 2017

Alcuni capi sono stati chiamati eroi o governanti eccezionali perché con la loro azione hanno influito sull’esistenza della collettività. I grandi uomini non sono stati necessariamente grandi solo per il loro valore esemplare, morale o creativo, ma anche perché la loro azione ha avuto effetti nel tempo e nello spazio. Nell’Ottocento si diceva che erano i capi ad aver fatto la storia. Nel Novecento che erano state le masse ad aver fatto la storia. Oggi invece è consuetudine dire che “La storia la fanno i capi e le masse“.

Nel corso della storia recente ci sono stati capi che si sono serviti del consenso popolare per smantellare l’istituzione democratica del loro paese (nell’Ottocento in Francia, Napoleone Bonaparte e nel Novecento, Hitler e Mussolini) ma anche capi che ne hanno salvaguardato i principi come Charles De Gaulle in Francia, Franklin D. Roosevelt negli Stati Uniti e Winston Churchill in Gran Bretagna.

Attualmente le democrazie occidentali e i principi che le regolano, pur essendo messe sotto pressione dal populismo dilagante, non corrono un reale pericolo di essere soppiantate da regimi dittatoriali. Ma è evidente comunque che sono mutati alcuni aspetti sostanziali, in particolare i rapporti che intercorrono tra i governanti e i governati: infatti possiamo parlare di essere all’interno di una Democrazia recitativa, concetto espresso dal presidente americano Abraham Lincoln, dove la politica diventa l’arte del governo del capo, che in nome del popolo muta i cittadini in una folla apatica, beota o servile.

Massa, folla, capi e democrazia sono concetti che nel corso della storia si sono intrecciati e contaminati assumendo un particolare significato a seconda di chi li  impiegava e dal contesto in cui essi apparivano, riflettendo concezioni diverse del potere, della politica e dell’uomo.

La culla della democrazia è storicamente identificata nella Grecia del Sesto secolo a.C. . Nelle città dove furono sconfitti i governi dei re, degli oligarchi e dei tiranni si instaurarono nuovi assetti istituzionali incentrati sul potere del popolo: la più importante di queste città è stata Atene. Ad Atene il potere apparteneva all’Assemblea del Popolo, composta da tutti i cittadini liberi di sesso maschile al di sopra dei vent’anni, nati da genitori ateniesi, senza distinzione di censo, istruzione e professione. Adunata nell’Agorà, l’Assemblea del Popolo era sovrana su tutte le decisioni riguardanti la politica interna ed esterna della città: i cittadini erano, allo stesso tempo, governanti e governati. Ogni anno venivano estratti i cinquecento membri del Consiglio quale organo esecutivo e di controllo a cui tutti i cittadini (ricchi e poveri) potevano far parte. L’Assemblea Popolare eleggeva inoltre dieci strateghi militari, eleggibili per più mandati. In caso di guerra uno di essi veniva nominato comandante supremo.

La democrazia ateniese raggiunse il suo massimo splendore tra il 460 a.C. e il 429 a.C. quando la vita politica fu dominata dalla personalità di Pericle. Dalle testimonianze di Tucidide è possibile dedurre che Pericle era un capo che si rivolgeva alla folla dei cittadini con la retorica dell’emozione ma con l’eloquenza della ragione. Era capace inoltre di conquistarsi il consenso delle classi inferiori parlando ( come si dice oggi ) alla pancia della gente: ad esempio istituì l’indennità per le cariche pubbliche e mise in atto grandi opere come il Partenone allo scopo di  rendere la città di Atene ancora più magnifica. Nei suoi appelli Pericle celebrava la democrazia ateniese non solo come sistema politico, ma anche come uno stile di vita che distingueva gli ateniesi fra tutti i greci esaltandone l’amor proprio e erigendola ad icona per tutta la Grecia.

Ma non tutti i cittadini di Atene ritenevano che la democrazia guidata da un leader fosse la scelta migliore. Aristotele infatti affermava che la sovranità della massa potesse generare la tirannide per mezzo dell’opera del demagogo che si avvaleva del potere del popolo, usando i trucchi dell’oratoria, per ottenerne il consenso e governare concentrando il potere nelle proprie mani, lasciando così sopravvivere solo una parvenza di democrazia.

Se nel primo periodo della sua storia la Repubblica Romana era strutturata  in modo che ciascun organo dello Stato ( Consoli, Senato e popolo ) per decidere avesse bisogno l’uno degli altri ( così da controllarsi reciprocamente scongiurando che uno di essi diventasse troppo potente ) dopo una lunga guerra civile la repubblica mutò in un impero e il vincitore Giulio Cesare venne nominato imperatore. Egli godeva di un grande consenso popolare grazie a politiche mirate a consolidarne il consenso: infatti oltre alle vittorie militari in Gallia e Britannia che ne forgiarono il mito del conquistatore, promulgò leggi per la distribuzione delle terre a veterani e nulla tenenti e organizzò grandiosi giochi gladiatori. Anche dopo la morte di Cesare nel 44 a.C., ad opera di congiurati che si adoperavano per la rinascita della repubblica, Roma continuò ad essere una “repubblica  governata da un imperatore“.

I romani vivevano acclamando gli imperatori che li nutrivano e li distraevano con distribuzioni mensili di frumento, spettacoli quotidiani nei teatri, negli stadi e negli anfiteatri trascorrendo circa metà dell’anno in feste pubbliche obbligatorie ( da qui il famoso detto Panem et Circenses ).

Con la conversione al cristianesimo gli imperatori romani giustificarono il loro potere grazie al principio che l’imperatore regna per volontà di Dio asserendo che il popolo, gregge di Cristo, era affidato al governo e alla guida del buon pastore ( l’imperatore stesso )  consacrato per grazia di Dio.

Durante il Medioevo e nei primi secoli dell’età moderna le folle furono protagoniste di rivolte religiose pacifiche ed armate, promosse e guidate da re e capi religiosi, all’interno di una società dove sussisteva, nella mente dei governanti e dei governati, una fusione tra politica e religione. Filosofi e studiosi del tempo hanno elaborato teorie sui governanti e sul loro agire politico. Trai quali possiamo ricordare Niccolò Machiavelli il quale, dopo la caduta di Firenze nel 1512, invocava l’avvento di un capo capace di fondare un principato forte per salvare l’Italia dalla rovina “Uomini laudati capaci, usando qualsiasi mezzo, buono o cattivo, sempre mirando però al bene universale, di plasmare la materia del popolo per unirlo in uno Stato bene ordinato, repubblica o principato che fosse“ ( Il Principe scritto nel 1513 ).

Il Settecento fu caratterizzato dalle rivolte popolari nel continente europeo e nelle colonie inglesi del Nord America.

Il popolo è stato il protagonista della rivoluzione che diede luogo agli Stati Uniti d’America, ma per i Padri fondatori costituenti il popolo, meglio la folla, era da considerarsi solo un alleato prezioso per iniziare la ribellione in quanto successivamente si sarebbe dovuto lasciar governare da personalità più sagge e competenti. Essi chiamarono repubblica il nuovo Stato in quanto il termine democrazia racchiudeva in se l’animosità e le follie insite nel governo affidato al popolo: John Adams ( secondo presidente degli Stati Uniti ) affermava infatti  “sono per una libera repubblica, non a una democrazia, che è una forma di governo arbitraria, tirannica, sanguinaria, crudele e intollerante“. Dall’esperienza della rivoluzione francese gli intellettuali americani avevano tratto la convinzione che gli europei fossero afflitti da un male incurabile: anche quando insorgevano in nome della libertà, erano comunque destinati a sottomettersi volontariamente a un nuovo tiranno, a causa dell’ambizione dei loro capi avidi di potere e al fanatismo delle popolazioni assoggettate da secoli al despotismo della Chiesa e dei Re.

Nella prima fase della rivoluzione, al centro della politica francese, fece la sua comparsa una nuova entità la sovranità popolare incarnata in un nuovo corpo politico dotato di una propria volontà, la Volontà generale. La stessa che, all’apice della potenza militare della nuova repubblica, incoronò il generale Napoleone Bonaparte Imperatore di Francia, il primo capo nella storia moderna che sia riuscito ad imporre un regime di governo personale, chiedendo e ottenendo dai governati, attraverso un plebiscito, la rinuncia volontaria alla proprie libertà. Napoleone si servì della propaganda per creare il proprio mito attraverso roboanti bollettini di guerra che ne glorificavano le gesta militari e attraverso appelli patriottici indirizzati a tutti i francesi di ogni rango sociale allo scopo di unire “tutti alla massa del popolo“. L’apice della sua propaganda politica fu quando, dopo essere scampato a un attentato nel 1800, pronunciò la frase “io sono la rivoluzione“. Il primo periodo dell’impero francese guidato da Napoleone può essere considerata la prima esperienza di “democrazia recitativa“ in quanto, pur mantenendo formalmente l’aspetto di una democrazia popolare, di fatto era il governo del capo.

Quando in Europa nella prima metà del Novecento si sono radicate in Germania la dittatura nazista di Hitler e in Italia quella fascista di Mussolini, negli Stati Uniti d’America viene eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt alla carica di presidente ( 1932 ). Un presidente di uno Stato democratico che, grazie al consenso delle masse e ad un pragmatismo prossimo all’opportunismo, ha dimostrato che le masse non sono solo attratte dalla demagogia dei dittatori e che le istituzioni democratiche possono resistere al populismo se sono guidate da un capo forte e capace di suscitare entusiasmo e fiducia. Il presidente Roosevelt per stabilire un rapporto diretto e costante con il popolo americano intraprese numerosi viaggi in tutti gli Stati del paese e utilizzò al meglio un nuovo strumento di comunicazione di massa quale la radio; uno strumento che allo stesso tempo ne esaltava le personali doti oratorie e comunicative.

Anche la Gran Bretagna ha avuto il suo leader democratico capace di parlare e ammaliare le folle: il conservatore Winston Churchill. Dopo l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, Churchill viene designato primo ministro e nei successivi cinque anni, in particolare durante gli attacchi tedeschi all’isola, guida il popolo inglese esortandolo alla resistenza sia per mezzo della radio che della presenza fisica nei luoghi maggiormente colpiti dai bombardamenti. Churchill rivelò infatti straordinarie attitudini all’invenzione di frasi e gesti simbolici capaci di trasmettere alla popolazione la forza di resistere. Ma, pur avendo vinto la guerra contro la Germania e proclamato da tutti gli inglesi salvatore dell’Inghilterra, la maggioranza degli elettori che si recarono alle urne nel 1945 gli voltò le spalle votando per un governo laburista. Appreso il risultato elettorale Churchill affermò “Hanno tutto il diritto di votare per chi gli pare. Questa è la democrazia. E’ per questo che abbiamo combattuto“.

Dopo la seconda guerra mondiale l’evoluzione tecnologica e il boom economico hanno offerto alla politica nuovi strumenti di comunicazione di massa: Charles De Gaulle e John F. Kennedy sono stati i due leader democratici che, al di là dei miti, hanno saputo istituire un rapporto diretto con le folle, avvalendosi della televisione come principale strumento di comunicazione, ricercando comunque sempre il contatto personale con i propri cittadini.

Secondo De Gaulle il concetto di democrazia si sovrapponeva a quello della  sovranità nazionale in quanto se la prima è il governo del popolo da parte del popolo, la seconda è nel popolo che, attraverso le elezioni, la esercita tramite il capo dello Stato. E chi meglio di lui poteva adempiere a questo incarico. Dal contatto fisico con la folla De Gaulle traeva la conferma di essere il capo che incarnava la sovranità nazionale rinsaldando attraverso di lui l’unità del paese. Quale strumento comunicativo meglio della televisione poteva permettergli di essere ”presente dappertutto“.

Anche il presidente americano Kennedy esercitò un enorme fascino sulle folle non solo perché giovane e bello ma anche perché seppe entusiasmarle. Sia nel discorso di accettazione alla candidatura a presidente degli Stati Uniti che nel primo dibattito televisivo contro Nixon, Kennedy fu in grado di trasmettere agli spettatori  la visione  di una “nuova America“. Una transizione che richiedeva di sopportare impegni e sacrifici ma che avrebbe consegnato un nuovo futuro alle nuove generazioni e solo un  giovane capo come lui poteva essere in grado di guidarli in questo affascinante percorso di rinascita nazionale.

A seguito del tramonto delle ideologie politico-culturali del Novecento e della crisi economica che ha minato i pilastri della società contemporanea, in Europa e attualmente negli Stati Uniti con l’elezione di Donald Trump, si sono fatti strada leader e movimenti populisti.

A guidare questi movimenti troviamo sempre un capo che, orchestrando la propaganda politica sulla propria persona, sollecita il consenso delle folle attraverso appelli emotivi espressi con un linguaggio elementare ma fortemente drammatico. La campagna elettorale diventa così una scontro dove si decide il futuro del popolo e della nazione per mezzo di appelli che mirano all’inconscio più profondo delle persone, mutando la scena politica secondo i desideri e le paure degli stessi uditori. Vincendo le elezioni il capo si considererà così investito di una missione salvifica asserendo che la sua autorità è legittimata unicamente dal popolo che lo ha eletto.

Una democrazia recitativa dove i protagonisti sono il capo e la folla. Il primo dotato di un’autonomia decisionale assoluta l’altra apatica e del tutto priva di influenza sulle scelte del capo.

TAG: Cultura, democrazia partecipativa, democrazia rappresentativa, democrazia recitativa, leader, politica
CAT: costumi sociali

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