Parliamo tanto di me. Sul parlare in pubblico di cose intime

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30 Gennaio 2017

Quando si scrive di cose intime, a meno che non si sia Stendhal che sul proprio io sapeva imbastire sapientemente romanzi, contraffazioni, infingimenti misti a verità diaristiche, si rischia di uscire dal baricentro della propria personalità. Di quella che crediamo di possedere beninteso, perché lo studio di noi stessi non è mai completo e chi siamo in realtà forse lo sapremo solo nell’ora messianica.

“Parliamo tanto di me”, si divertiva Zavattini a intitolare un suo libretto. Solo il registro autocanzonatorio ci salva dal trombonismo o dall’intimismo più scomposto. In ogni caso “parlare tanto di me” è un rischio, un azzardo che qualche volta corriamo senza misurarne le conseguenze, i ritorni negativi non sulla nostra immagine pubblica, che fortunatamente molti di noi non abbiamo o che celiamo dietro un pudico anonimato, ma sull’immagine che ci siamo costruiti di noi stessi, quella sì, comunque per metà intima e per metà pubblica. Rischiamo di farci del male, perché non daremmo il nostro vero volto per intero.

Leibniz nei “Discorsi di metafisica” parlava del “concetto completo” di un uomo. Cos’è? La serie completa di tutti gli atti, fatti, pensieri, parole, azioni e omissioni che un uomo ha espresso nel corso della sua vita. Solo attraverso il suo “concetto completo” possiamo esprimere un giudizio su di lui. Ora, di questo “concetto completo” di un uomo è impossibile avere reale contezza; abbiamo solo dei pallidi riassunti biografici di una personalità anche pubblica, meri indizi, spesso illazioni. Neanche di noi stessi è a disposizione il “concetto completo”, non sappiamo neanche riassumerlo a volerlo esprimere ordinatamente seguendo tutte le “logiche” intime. Il racconto di un uomo si può fare solo per antologia di eventi, per crestomazia di fatti, highlight, “fioretti”, per selezione epica da parte del romanziere (a Omero bastò raccontare 51 giorni dell’assedio di Troia, per raccontare gli effetti dell’ira di Achille).  Il concetto completo di un uomo esiste solo “in mente dei” e si congiungerà a noi come la pelle di San Bartolomeo nella valle del Giudizio (che per molti  è bello sapere che non c’è).

Ma quando sei personalità pubblica, a tutti nota per varie ragioni, devi prendere le tue precauzioni. Ci siamo noi da quest’altra parte che ti abbiamo seguito, letto, ascoltato, valutato. Adesso impazzano le lettere alle mogli defunte, anche su Facebook. Terribili. Un genere letterario tutto nuovo che richiederebbe la forza stilistica di un Tolstoj redivivo.

Alla fine  accade che da molti giri di frase, anche in questa luttuosa circostanza, veniamo confermati che il Tal dei Tali è proprio un bru bru. Avevamo visto giusto. Ne avevamo elaborato, per indizi e illazioni, il “nostro” concetto completo. Vale la pena correre questo rischio? Non è meglio un composto, sobrio, tombale silenzio e continuare a barare elegantemente su se stessi? Non è meglio restare nella cortina fumogena della fama usurpata e della dappocaggine di fondo lasciata trasparire solo per intervalla insaniae come un larvato sospetto, piuttosto che darcene la certezza?

 

TAG: autobiografismo, Cesare Zavattini, Facebook, lettera alla moglie defunta
CAT: costumi sociali

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