Meritocrazia, meritofilia e sistemi di valutazione

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28 Febbraio 2015

Il recente post di Matteo Saini (“Contro la meritocrazia”), il coro di critiche che sono seguite e l’eccellente articolo di Umberto Cherubini hanno sollevato una questione che merita (pun intended) di essere approfondita e discussa il più possibile. Propongo di seguito una tesi e alcune distinzioni che ritengo possano risultare utili al dibattito, che mi auguro non finisca qui.

 

Cominciamo col distinguere tre elementi: meritofilia, meritocrazia e sistemi di valutazione. Chiamo ‘meritofilia’ l’atteggiamento o, se vogliamo, la Weltanschauung all’interno di cui chi è meritevole, ossia chi fa bene ciò che ha deciso di fare, è stimato, incoraggiato e sostenuto dalla comunità di appartenenza (N.B. sono cosciente che il termine ‘meritofilia’ ha delle assonanze spiacevoli con termini quali ‘pedofilia’ ma qui lo uso in maniera analoga a termini quali ‘cinofilo’ o ‘bocciofilo’, che designano chi ha una simpatia o passione attivamente coltivata, e non chi ha la tendenza a molestare cani o bocce.) La ‘meritofilia’ è un ingrediente imprescindibile in una comunità sana. Chiamo ‘meritocrazia’ invece un fenomeno molto più circoscritto, che diversamente dalla meritofilia non costituisce un clima umano diffuso (come sosterrò qui sotto: se la meritocrazia diventa un clima umano diffuso sostituendosi alla meritofilia subentrano dei seri problemi), e che diviene rilevante in circostanze ‘straordinarie’ quali l’assegnazione di un posto di lavoro o di un premio. La meritocrazia è il principio per cui in una situazione ‘straordinaria’ di competizione ci si sforza di identificare il migliore candidato e assegnare a lei/lui il posto di lavoro o premio in palio. Uso dunque il termine ‘meritocrazia’ soltanto in riferimento a situazioni selettivo-competitive di carattere professionale (in senso lato). Credo siamo tutti d’accordo che lo svolgersi normale di una vita umana (per lo meno in Paesi mediamente sviluppati) ci mette di fronte a situazioni selettivo-competitive di carattere professionale soltanto di rado. Infine, chiamo ‘sistemi di valutazione’ in senso lato gli strumenti tecnici di cui una comunità si dota per gestire situazioni selettivo-competitive di carattere professionale secondo lo spirito della meritocrazia.

 

La mia tesi è la seguente: la meritofilia è condizione necessaria e sufficiente perché vi sia meritocrazia, e non viceversa. Una comunità meritofila tenderà ad affrontare situazioni selettivo-competitive di carattere professionale con uno spirito meritocratico indipendentemente dagli strumenti di valutazione a diposizione. Viceversa, la mancanza o il difetto di meritofilia in una comunità non possono essere ‘corretti’ mediante un indebito allargamento del principio meritocratico (cercando, ad esempio, di presentare il maggior numero di situazioni umane possibili come se fossero situazioni selettivo-competitive di carattere professionale), né mediante un raffinamento e una complicazione degli strumenti di valutazione.

 

1.     Sulla meritofilia

 

Mettiamo anzitutto bene a fuoco il concetto di ‘meritofilia’. Se un padre o una madre si mettono a cucinare la cena, in condizioni di vita familiare sana e serena, possiamo presumere che si adopereranno per farlo bene. Questo semplicemente perché mangiare bene è un fine in sé, che rende la vita migliore sia dal punto di vista della salute sia dal punto di vista dei rapporti sociali. Una famiglia meritofila è una famiglia in cui quando il padre o la madre cucinano come si deve gli altri membri della famiglia si congratulano col cuoco ed esprimono così la propria simpatia per chi fa bene. Il merito del cuoco e il riconoscimento simpatetico di questo merito da parte di amici e familiari non hanno nulla a che vedere con una situazione selettivo-competitiva di carattere professionale. Non ci impegniamo a cucinare bene per i nostri familiari e amici pensando che magari qualcuno di essi potrebbe un domani scriverci una lettera di referenza per un posto da chef. In maniera analoga, che un ragazzino giochi bene a calcio o vada bene a scuola sono fini in sé. Una sana comunità meritofila sostiene e incoraggia il ragazzino, non perché potrebbe diventare un campione o un membro dell’Accademia dei Lincei, ma perché ambedue le attività contribuiscono alla sua fioritura e a quella della persone che lo circondano.  A questo livello la meritocrazia non è soltanto fuori luogo, ma anche deleteria. Cucinare bene in casa soltanto perché l’amico potrebbe sostenere la nostra candidatura per un posto da chef, andare bene a scuola soltanto per entrare nell’Accademia dei Lincei, giocare bene a calcio soltanto in vista di una carriera in serie A non sono esempi di meritocrazia ma di pericolosa imbecillità. Un traguardo meramente presunto e differito nel futuro soppianta e svuota di significato intrinseco l’attività presente e rende ciechi a quella pluralità di fini in sé che rendono la vita umana bella e degna di essere vissuta qui e ora. Beninteso, il padre cuoco potrebbe diventare uno chef e il ragazzino accademico dei Lincei o calciatore in serie A. Ambedue ad un certo momento potrebbero decidere di perseguire attivamente gli obiettivi suddetti. Ma un perseguimento sano di questi obiettivi presuppone l’aver imparato, in un contesto meritofilo, che la buona cucina, lo sport e il sapere sono fini in sé e proprio per questo vi si può ragionevolmente dedicare la vita, se lo si desidera.

 

2.     Sulla meritocrazia e sui sistemi di reclutamento

 

Nella vita normale di una comunità umana ricorrono situazioni selettivo-competitive di carattere professionale. Queste situazioni sono sporadiche e delicate perché non decidono soltanto del futuro di un individuo ma anche della comunità nel suo complesso. Ogni comunità ha quindi interesse ad assegnare i ruoli e riconoscimenti professionali a sua disposizione ad individui che lavorino bene. I responsabili dell’assegnazione di una posizione professionale in una comunità meritofila saranno verosimilmente orientati quasi per natura a preferire e a simpatizzare per chi fa bene, senza dimenticare altri fattori, quali la giustizia sociale e la fioritura generale della comunità, in sede di decisione. In molti Paesi è normale, ad esempio, favorire membri di gruppi sociali precedentemente discriminati o sottorappresentati nell’assegnazione di posizioni lavorative, ovviamente, ceteris paribus. Già questo esempio mostra che la meritocrazia assoluta, secondo cui conterebbero solo ed esclusivamente i traguardi professionali individuali (a.k.a. le righe sul curriculum), è una chimera. Una società meritofila che esercita la meritocrazia in situazioni selettivo-competitive di carattere professionale terrà inevitabilmente conto anche di altri fattori, senza mai perdere d’occhio il nucleo della questione, ossia la bravura nell’ambito professionale. Ad esempio, che un candidato abbia o no una famiglia e abbia o no dei figli non sono questioni di carattere meramente privato irrilevanti al fine dell’assegnazione del posto di lavoro. Per lavorare bene, ad esempio, una certa stabilità emotiva e relazionale, come quella favorita da una famiglia, può essere considerata un fattore positivo da chi valuta. Inoltre, la scelta di avere dei figli è una scelta positiva nella prospettiva più ampia della fioritura della comunità (se nessuno fa figli la comunità declinerà fino a sparire) che tuttavia richiede tempo ed energie inevitabilmente sottratte al lavoro. Questa è la ragione per cui in diversi Paesi (per esempio la Germania) sono previsti estesi periodi sabbatici per i genitori e sussidi di Stato indipendenti dalla fascia di reddito, senza che i colleghi single e ‘sgobboni’ (per riprendere un orrendo termine comparso in un commento all’articolo di Matteo Saini) si lamentino per l’assenza di meritocrazia. Una società in cui, per riprendere l’esempio addotto da Matteo Saini, per ottenere una buona posizione come architetto occorre lavorare ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana, non farsi una famiglia, e rinunciare a tutti gli altri aspetti che rendono la vita bella e degna di essere vissuta non è una società iper-meritocratica bensì una società disfunzionale, in cui alla fine mancheranno anche buoni architetti. Non si tratterebbe di una società che promuove la meritocrazia bensì la genesi di idioti monomaniaci. E, detto francamente, a chi di noi andrebbe di recarsi al lavoro ogni giorno in compagnia di idioti monomaniaci? Probabilmente neppure a un idiota monomaniaco. Quindi, in sintesi, la meritocrazia in concreto non è mai solamente una considerazione degli achievements professionali ma una considerazione globale della propensione a far bene di chi si candida per una posizione lavorativa.

 

A questo punto occorre però evidenziare un problema. Supponiamo che, con spirito meritocratico, una commissione di reclutamento per un posto di professore universitario si accinga ad esaminare i candidati. I membri della commissione dovrebbero sforzarsi di identificare il migliore o la migliore e assegnargli o assegnarle il posto. Un tale compito è sensato e possibile se i candidati sono, diciamo, nell’ordine delle decine. Su un gruppo di dieci o venti persone valutato secondo una prospettiva professionale definita ha senso chiedersi chi sia il migliore. Ma se il gruppo è di cento, duecento o trecento persone? Che senso ha chiedersi chi sia il migliore? Ce ne saranno almeno una decina o più di “il migliore”! Ed è a questo punto che le strade anglosassoni e quelle italiche si biforcano. L’anglosassone tende ad essere realistico. Sa benissimo che non c’è il migliore e che non ha senso chiedersi chi sia e quindi lascia la decisione alla discrezionalità meritofila dei commissari. Su questa giocano ovviamente tanti fattori che col merito professionale dei candidati non hanno nulla a che vedere (per fortuna!!!). Ad esempio, tizio può aver pubblicato settecento articoli in riviste iper-competitive ma se è evidentemente un piantagrane e un arrogante non credo proprio di volerlo incontrare alla macchinetta del caffè tutte le mattine per i prossimi vent’anni, quindi avanti col prossimo. Caio è brillante, ma Sempronio ha lettere di raccomandazione scritte da alcuni luminari del settore, il rapporto con i quali contribuirebbe alla fioritura intellettuale del dipartimento, quindi avanti Sempronio! E poi c’è Johnny che ha una sola pubblicazione ma è veramente interessante, mostra evidente potenziale, che ovviamente non è quantificabile in righe di curriculum ma si riconosce quando lo si incontra. Quindi se la giocheranno Sempronio e Johnny.

L’italico meritocratico (un po’ in stile ANVUR), invece, è una specie di calvinista riformato. Dopo aver assistito per anni a scenari stile Il Padrino, si è convinto della depravazione totale del sistema. Il peccato originale ha cancellato dal cuore umano ogni forma di meritofilia e dunque occorre invocare la grazia algoritmico-matematica dei sistemi di valutazione per risollevare le sorti della specie caduta. Ed ecco che il sistema di reclutamento si complica a dismisura, si moltiplicando gli indicatori, i criteri, i calcoli delle mediane, gli elenchi delle riviste di classe A etc. etc. etc.

In questa tendenza ci si illude che esista un sistema di valutazione che renda la meritocrazia automatica e la meritofilia superflua. È falso. Senza meritofilia come humus culturale da coltivare sempre di nuovo e alla cui saggezza poter attingere ogni volta che la decisione in situazioni selettivo-competitive di carattere professionale si riveli complessa non ci sarà mai vera meritocrazia. Semplicemente si richiederà ai gestori nepotistici del potere di farsi ancora un po’ più scaltri per ovviare alle nuove complicanze del sistema. Per concludere, chi ha a cuore che i meritevoli ricevano il riconoscimento professionale che gli spetta dovrebbe anzitutto contribuire a coltivare e supportare comunità meritofile e non investire preziose energie a vagheggiare sistemi di valutazione talmente perfetti che per decidere a chi spetta di diritto il posto basti soltanto immettere dei dati. La chiave della meritocrazia è la responsabilità personale di individui educati in comunità meritofile. I sistemi di valutazione sono, al massimo, un’utile appendice.

 

 

 

TAG:
CAT: costumi sociali, Filosofia

2 Commenti

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  1. matteo.saini 9 anni fa

    Grazie Andrea. Sono d’accordo con molti spunti e osservazioni del tuo articolo. Un dubbio che ho riguarda il rapporto tra meritocrazia e degenerazioni spesso mascherate in suo nome (es. studio giapponese di architetti notturni). Tu ci tieni a distinguerle da una reale e sana meritocrazia, e ti capisco. Rimane però in me il dubbio che spesso chi parla di meritocrazia persegua invece prospettive di quel genere. Penso a certi ambienti bocconiani e affini, ma non solo.

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  2. astaiti 9 anni fa

    Caro Saio, io francamente propendo per evitare stereotipizzazioni, soprattutto di mondi che si conoscono solo dall’esterno e in versione romanzata. Non facciamo di tutta l’erba un fascio e di ogni erborista un fascista…

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