Futureworld, il futuro era già ieri. La California in mostra a Torino

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1 Novembre 2016

Così tanta frenesia del presente e nessuna cura dell’idea delle tracce che lasceremo domani di ciò che siamo. Tutto vira sempre più verso il digitale, l’immateriale, l’altamente definito, la qualità perfetta e intanto sempre meno lettori scelgono il piacere tattile della carta da stringere, passare di mano, leggere, gettare o accatastare. E’ spazio sprecato, se un hard disk ne può contenere milioni di copie. Poi però ci appassioniamo al vintage, abbiamo nostalgia del passato che semplificava i gesti e non ci avvolgeva di stimoli costanti, delle ghiere dei telefoni, delle cabine telefoniche, dei poster ingialliti, dei vinili consumati. Abbiamo nostalgia delle copie originali che un file ucciderebbe con un clic. Un tempo non c’era nessun mondo touch fra le dita, c’era tutto il piacere dell’attesa: di un fumetto settimanale, di una rivista mensile, di una tendenza svelata in un’intervista in edicola, di un videoclip che non sapeva di essere un videoclip, di un artista d’avanguardia che si poteva cercare di capire solo dal vivo, senza photogallery che anticipavano, svelavano, scoprivano. Come ci siamo arrivati fino a qui? Quali passi, e a quale velocità abbiamo fatto dal punto di vista artistico, grafico, culturale, per capire un presente di infinite possibilità embrionali che hanno sfidato la mente umana? Uno spaccato di quello che è stato e che ci ha condotti in pochi decenni a rivoluzionare il nostro sistema espressivo è contenuto in Futureworld, la mostra di FN (federiconovaro.eu) curata da Pietro Grandi e parte del Torino Graphic Days, il festival internazionale organizzato da Print Club Torino interamente dedicato al visual design, dal 3 al 6 novembre 2016. Una vita passata a selezionare e custodire gelosamente materiale storico importantissimo per capire il futuro della California tra gli anni ’50 e ’80, là dove il domani veniva scritto, là dove avviene ancora oggi. Libri e riviste, tutte in prima edizione, accompagnati da post monografici ci parlano di California, globalizzazione, nuova rappresentazione, controcultura, nuovi strumenti, cibernetica, informazione tecnologica, multimedialità, pixel colorati, videotape, computer grafica, world wide web, internet. Ci parlano di quello che saremmo diventati o aspiravamo ad essere. Ci raccontano ciò che immaginavamo utopisticamente di poter costruire attorno a noi, non senza paure ma con una buona dose di creatività ed urgenza culturale.

Da dove derivano tutte queste parole? Quale è la cultura che ha portato questa rivoluzione? Chi ci ha aperto le porte del futuro? Su quali libri? Su quali riviste? Con quale grafica?

Se vi ponete almeno una domanda di queste fatevi un giro a Torino a Futureworld.
L’assaggio dell’esposizione a bordo della macchina del tempo lo affido a Gianluca Didino, giornalista italiano che collabora con Studio, Prismo e doppiozero e che firma l’introduzione a Futureworld:

“California, 1966. Nel campus della Stanford University un ex studente di biologia distribuisce spille bianche con una scritta nera che dice: “Why haven’t we seen a photograph of the whole Earth yet?” Si chiama Stewart Brand, ha ventotto anni, è stato un soldato e un membro dei Merry Pranksters, un gruppo che promuove l’uso delle droghe psichedeliche; nonostante la giovane età ha studiato anche design e fotografia, ha vissuto nelle riserve indiane e abita con la seconda moglie su una barca ancorata nella baia di Sausalito. Ora sta facendo campagna perché la NASA renda pubbliche le prime fotografie satellitari della Terra vista dallo spazio di cui sui giornali si mormora da mesi: come l’architetto Richard Buckminster Fuller, Brand è convinto che se l’umanità potesse vedere il pianeta dal di fuori, galleggiante nel nero del vuoto cosmico, il senso di appartenenza alla stessa specie diventerebbe così forte da far cessare le guerre e cadere le divisioni di classe. Buckminster Fuller, che nel 1966 ha superato i settant’anni, lavora da tempo su concetti simili: dalla fine degli anni Quaranta progetta cupole geodetiche,  rifugi eco-sostenibili basati sull’idea della Terra come un’astronave nello spazio con risorse limitate (Spaceship Earth) e la cui progettazione si avvale dello studio della teoria dei sistemi e della capacità offerta dalla tecnologia di risparmiare sui materiali (ephemeralization). Nella California degli anni Sessanta, teoria dei sistemi e cibernetica sono le parole chiave di campi di studio che si intersecano: a Palo Alto lo psicoterapeuta Don D. Jackson ha fondato il Mental Research Institute, dove le malattie mentali vengono indagate nell’ottica di un sistema di relazioni secondo le teorie della cibernetica postulate da Norbert Wiener nel 1947; il 9 dicembre del 1968 a San Francisco l’ingegnere Douglas Engelbart tiene una dimostrazione di informatica che passerà alla storia come The Mother of all Demos in cui presenta al pubblico per la prima volta il funzionamento base del personal computer: a essere introdotte quel giorno sono l’interfaccia grafica, il word processor, la videoconferenza e il mouse.

Un anno dopo l’inizio della campagna a Stanford, Brand ottiene quello che desidera: la NASA rende pubblica un’immagine a colori del nostro pianeta scattata dal satellite ATS-3. L’anno successivo, lo stesso del Maggio francese, l’astronauta William Anders scatta dall’Apollo 8 quella che diventerà la più famosa immagine della Terra vista dallo spazio: nella parte bassa della fotografia si vede la superficie sterile e grigia della Luna, mentre in lontananza appare la Terra azzurra, luminosa e per metà nascosta dal nero interplanetario. Si tratta di un’immagine che aggiunge qualcosa anche rispetto al discorso iniziale di Brand: fotografata da quella prospettiva la Luna manifesta tutta la sua alterità aliena, mentre la Terra sembra sull’orlo di affondare nel buio. Brand utilizza questa fotografia per illustrare la copertina dell’edizione primaverile del 1969 del suo Whole Earth Catalog, una sorta di catalogo di vendita per corrispondenza di materiale DIY (Do It Yourself, equivalente dell’italiano “fai-da-te”) per comunità hippy nato dalla campagna di Stanford. Sei anni dopo, quando il Whole Earth Catalog chiude le pubblicazioni, la quarta di copertina dell’edizione del 1974 mostra due immagini: nella parte bassa un panorama quotidiano di una strada californiana al tramonto, con colline basse e pali della luce; nella parte alta un’eclissi lunare e le parole “Stay hungry. Stay foolish”. Nel 2005, quasi quarant’anni dopo l’inizio della Whole Earth Campaign, il fondatore di Apple Steve Jobs tiene un famoso discorso ai neolaureati di Stanford, l’università che lui stesso ha frequentato a partire dal 1971. Il discorso di Jobs, com’è noto, si chiude con le stesse parole: “Stay hungry. Stay foolish”.”

Crediti
A cura di Pietro Grandi e Federico Novaro

Catalogo
Introduzione di Gianluca Didino
Grafica di Christel Martinod

Video
Regia di Pietro Grandi e Fabio De Martini
Voce registrata di Richard Brautigan
All Watched Over by Machines of Loving Grace (1967)

FN in collaborazione con Sensitive Mind – 2016

 

TAG: arte, Cultura, futuro, grafica, graphicdays, Torino
CAT: costumi sociali, Innovazione

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