Lettera a un partito non ancora nato

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19 Marzo 2018

Caro partito,

il voto dello scorso 4 marzo ha sancito la fine di un’epoca. Per quanto infatti in tanti – sui giornali, sui social, nei bar, nelle sezioni o circoli che dir si voglia – parlino di crisi, ciò che è successo non è una burrasca passeggera, ma un netto e deciso cambio climatico. Non si è trattato di un voto di protesta, non si è trattato di maldipancismo e populismo, non si è trattato nemmeno del solito disinteresse astensionista. Le persone sono andate a votare e hanno radicalizzato le loro posizioni. Sono andate a votare e hanno detto basta al sistema di rappresentanza del partito tradizionale. Eppure nessuno sembra essersene accorto e tutti, da destra a sinistra, si rimpallano la patata bollente di un’analisi che sembra aver perso i suoi punti di riferimento. Di partiti però, si parla ancora tanto e sui giornali tiene banco il dibattito interno al PD, per certi versi campo di battaglia sul quale si sta misurando l’impatto di questa tornata elettorale sulla politica in senso più ampio. Le dimissioni di Matteo Renzi, le riunioni della minoranza, le reazioni dell’ala renziana, congresso, gestione condivisa, ritorno ai circoli, consultazioni della base, primarie, congresso per tesi, una grande mobilitazione sui temi, alleanze si, alleanze no…

Uno spettro tuttavia si aggira nelle sale dei dibattiti, crea disagio, fa sentire la sua presenza, ma in pochi lo vedono. Si tratta dello spettro della fine della forma partito come noi siamo abituati a conoscerla, la crisi di una rappresentanza che aveva già colpito duramente i corpi intermedi e che, a suo modo, aveva trasformato proprio i partiti stessi in corpi intermedi.

Un voto vale uno, mancanza di fiducia, resistenza alla delega, mutamento profondo e radicale dei tempi e delle modalità che la popolazione ritengono adatte al fare politica. Il partito di Renzi aveva “annusato” qualcosa nell’aria: quando parlava di partito del fare aveva sicuramente capito che – di questi tempi – le persone si aspettano soluzioni rapide ai loro problemi per quanto complessi. Non si lotta più per il sol dell’avvenir, ma si vuole una risposta in 24 ore, possibilmente consegnata con la stessa rapidità di un pacco Amazon. Di questo, caro partito, bisognerà d’ora in poi tenere sempre conto, senza quello snobbismo, che talvolta contraddistingue la politica, che ci porterebbe a rispondere “Ogni cosa a suo tempo”. Il partito del fare però non ha funzionato. Le persone vogliono soluzoni rapide, ma le soluzioni durature – per fortuna – hanno ancora bisogno di tempo per strutturarsi. Occorre confronto, discussione sui valori e sul piano ideale, occorre mediazione con le parti in causa.

Quando si accusavano le minoranze di portare macigni sulla strada delle riforme non ci si era accorti – forse – che non si trattava di macigni, ma di persone, di istanze che quelle persone volevano veder rappresentate e, di conseguenza, valutate. Peccato, era una buona occasione, un treno perso per eccesso di operatività.

Quindi che fare? Bisogna rottamare i rottamatori con i rottamati? Occorre, ancora una volta, pensare a un rinnovamento della classe dirigente? Forse, così come – forse – bisogna provare a riprendere i contatti con i circoli di base. Ma si tratta di una terapia paliativa. Lenirà i dolori per qualche tempo, ma per sperare di riprendersi – caro partito – occorre un’operazione drastica. Prendiamo atto del cambiamento che – con tante analogie rispetto al mercato – non è sintomo di una crisi, ma di una radicale trasformazione. Non torneremo ai fasti dei partiti tradizionali, così come non torneremo al boom economico degli anni ’50. Quei tempi, belli o brutti che fossero, sono andati per sempre. La partecipazione è andata, le sedi si sono svuotate (e non raccontiamoci, come consolazione, che in tanti stanno correndo nelle sezioni per fare la tessera: durerà qualche settimana), i nostri dibattiti e i nostri eventi sono animati sempre dalle stesse persone. Eppure a “casa d’altri” le cose sembrano andare meglio o almeno il voto sembra testimoniarlo. Come mai? La risposta non può stare solo in una semplificazione del pensiero, in un plagio mediatico generale, in un accanimento antipartitico degno del miglior complotto. Ma ci ascoltiamo? Davvero vogliamo continuare a darci queste risposte? Certo l’elettorato è cambiato, ma è cambiato, in generale, il rapporto con la sfera pubblica, con la comunità.

Si partecipa sempre meno, si milita sempre di più, ci si mobilita per singole cause o ideali, si delega meno – in modo totale e organico – la propria rappresentanza, anche sul piano valoriale.

La tessera non rappresenta più l’adesione ad un gruppo, perché per ogni gruppo esistono infiniti “se” e “ma” e l’individuo, al centro, non è disposto a rinunciare nemmeno a una piccola parte della sua identità personale in favore di un senso di collettività. Positivo? Negativo? Per te – caro partito – un dato di fatto dal quale bisognerebbe partire per ciascun ragionamento. Il partito è uno strumento, anche piuttosto recente rispetto ad altri strumenti di governo, per amministrare una collettività. Se la collettività non si riconosce più nel partito e il partito non si fa carico di una radicale trasformazione, il partito è destinato a morire.

Ecco allora, fatto questo funereo quadro, qualche spunto lo vorrei dare. Non è tutta farina del mio sacco, ma di un sacco che si è riempito, poco alla volta, grazie ai contributi di chi – nonostante la sostanziale differenza dei vertici – ha continuato a ragionare (in direzione ostinata e contraria) di metodo. Ci hanno provato i Luoghi ideali di Fabrizio Barca, ma non solo, ci hanno provato i corsari del PD. Il metodo però, caro partito, non è mai stato davvero all’ordine del giorno: eravamo troppo impegnati ad amministrare. Nulla di male, anzi, il bene di un paese, che si tratti di poche anime o del Paese Italia, viene prima di qualsiasi discussione interna. Forse per questo però occorreva fermarsi e ragionare sull’opportunità di avere, nella stessa persona, un leader di governo e il segretario di partito. Sono mestieri diversi, che possono tarparsi le ali a vicenda. Ed è ciò che è successo.

Ma torniamo alla proposta. Dobbiamo tornare a parlare di metodi e di modi del fare politica. Con una chiara divisione di ruoli e di spazi, di contenuto e di forma. Dobbiamo pensare a un partito che nei circoli (o nelle sedi interne) faccia elaborazione di alto livello, recuperando anche un piano ideale, con il coraggio d’immaginare proposte per i prossimi cinquant’anni, con una forte spinta radicale. Questa operazione sarà per i pochi (o molti, speriamo, ma non occorre aspettare di aver ripopolato i circoli per partire), che avranno il tempo, la voglia, la preparazione e le capacità per sviluppare questo confronto. Il risultato di queste elaborazioni invece dovrà essere proposto all’esterno con semplicità e immediatezza. Attenzione, non si tratta di semplificazione, tutt’altro. Si tratta di mantenere viva la complessità dell’analisi, ma senza la supponenza e la presunzione di chi crede che tutti abbiano tempo, voglia e desiderio di “studiarci”. Un messaggio politico chiaro e ben strutturato può essere spiegato nel corso di un aperitivo.

Il mezzo popolare è l’esatto contrario del populismo e, credo, la sola cura possibile alla banalizzazione del messaggio.

Non occorronno infiniti incontri. Dobbiamo recuperare un livello di sincerità nei rapporti, mettendo da parte l’atteggiamento da tifoserie. Non dobbiamo costruire una “narrazione”, dobbiamo viverla quotidianamente insieme alle persone che desideriamo rappresentare. Dobbiamo praticare la gentilezza e la cura, mettendo da parte ogni snobbismo o arroganza. Chi ci ha battuto, in queste elezioni, non si è mai messo in cattedra, mentre noi – partiti “classici” di destra o sinistra – abbiamo dato l’impressione dei primi della classe, sempre pronti ad impartire qualche saggia lezione (“I soli con le competenze per governare!”), mai a permettere a qualcuno rimasto indietro di fare i compiti assieme a noi, anche a costo di lasciarlo sbirciare di tanto in tanto. Dobbiamo insomma lavorare su almeno tre binari:

  • quello del partito di governo e amministrazione, che è bene si concentri sui problemi di oggi e offra soluzioni domani
  • quello del partito di pensiero, che si dovrebbe concentrare sull’elaborazione, per creare i presupposti affinché le soluzioni di domani possano ambire ad essere davvero durature e innovative, adatte non solo a noi, ma ai nostri nipoti
  • quello del partito delle relazioni, fatto di pochissima forma e molto contatto, di vicinanza alle abitudini, ai gusti, ai “riti” di oggi. Semplice e davvero popolare, che si tratti di un talk show o di una birra con chi ci ha chiesto di poter scambiare due chiacchiere

Per ogni partito esiste poi un modo: più elitario – sicuramente –  nell’elaborazione, ma allo stesso tempo conciliante, attento all’ascolto, ricettivo di ogni istanza, accogliente. Più formale nell’amministrazione, a tratti netto, soprattutto nel rapporto con gli avversari politici, determinato e capace di dare risposte in tempi accettabili. Più leggero, informale, divertente (parola troppo spesso snobbata dalla politica) ed empatico nella relazione con le persone. Alle quali dobbiamo smettere di chiedere di “seguirci” o “partecipare al nostro livello”, per poi accusarle – magari – di non aver capito. Lo sforzo di comprensione spetta a noi, caro partito, sempre e comunque. Noi che siamo un mezzo e non un fine e che alla nostra fine (mi si passi il gioco di parole) ci avviciniamo sempre di più ogni volta che rinunciamo a rivedere i nostri metodi, i nostri modi.

TAG: Circoli, Crisi dei partiti, Crisi della sinistra, destra, elezioni 2018, fabrizio barca, luoghi ideali, Matteo Renzi, partiti, Pd, politica, Sezioni, sinistra, Tesseramento
CAT: costumi sociali, Partiti e politici

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