A 25 anni da Capaci: quando un processo fatto bene costa la vita a un giudice

20 Maggio 2017

Venticinque anni fa, il 23 maggio 1992 nei pressi dello svincolo di Capaci sull’autostrada A29, a pochi chilometri da Palermo, vennero uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. L’attentato era stato deciso fra il settembre e il dicembre 1991 nel corso di alcune riunioni dei vertici di Cosa Nostra, l’organizzazione mafiosa siciliana guidata che Falcone aveva combattuto in tutta la sua carriera di magistrato. 

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Il capolavoro giudiziario che ha consegnato alla storia Giovanni Falcone, come un valoroso magistrato e autentico servitore dello Stato, fu il maxi processo: rappresentò il suggello della sua strategia contro Cosa Nostra.

Per la prima volta la mafia si sentì assediata, colpita, investita da una terribile e devastante forza d’urto che l’avrebbe messa sotto scacco.

Non ci sarebbero state più facili e prevedibili assoluzioni per insufficienze di prove, le requisitorie dei pubblici ministeri avrebbero retto agli attacchi delle difese degli imputati, perché l’intelaiatura, preparata ed intessuta, sin nei minimi particolari, con dovizia, dal Giudice istruttore Giovanni Falcone, era ben salda.

Ogni tassello del suo mosaico era inserito nel quadro d’insieme, con perspicacia e raffinata strategia processuale: le dichiarazioni dei pentiti erano sempre suffragate da riscontri obiettivi.

Tenne magnificamente la prova il “metodo Falcone”:

«Mi sono fatto le ossa a Trapani come sostituto procuratore. Era il novembre 1967 e, puntuali come un orologio svizzero, cominciarono ad arrivarmi cartoline con segni di bare e di croci. Il mio tuffo nell’universo di Cosa Nostra è stato appassionante: non era facile avere una visone unitaria del fenomeno mafioso. Nel 1978 sono tornato a Palermo e sono stato spedito al tribunale fallimentare.  Poi son stato assegnato come giudice istruttore al gruppo che faceva capo al consigliere Rocco Chinnici. Sono stati anni di lavoro luminosi. Quando è capitato il primo pentito, la persona che doveva confermare dall’interno dell’organizzazione un certo numero di elementi che avevamo appreso dai rapporti di polizia e carabinieri e dalle altre inchieste, avevamo già quattro anni di lavoro alle spalle enorme. Ci eravamo esercitati e formati sui nostri stessi errori di interpretazione. Il nostro pentito, Tommaso Buscetta, non era piovuto dal cielo. Quando nel luglio 1984 compare all’orizzonte siamo dunque predisposti.

Già avevo istruito i processi Spatola e Màfara. Conoscevo Cosa Nostra nelle sue grandi linee ed ero in grado di capire Buscetta e dunque di interrogarlo. Prima di lui non avevamo che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra, ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. E’ stato per noi un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti. Ci ha insegnato un metodo, qualcosa di decisivo, di grande spessore. Senza un metodo non si capisce niente. Con Buscetta ci siamo accostati all’orlo del precipizio, ove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere, per minimizzare, per spaccare il capello e le indagini in quattro, per negare il carattere unitario di Cosa Nostra. Buscetta ha fornito le coordinate che hanno permesso di delineare un metodo di lavoro. Ci ha consentito di impostare le indagini alla grande agli inizi, per potere poi, quando si hanno davanti i pezzi del puzzle, costruire una strategia» (Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani- Cose di Cosa Nostra, Biblioteca del Corriere della Sera, pag. 40-42).

Il suo metodo consisteva nel raccogliere, disaminare ogni particolare del fatto storico, soppesarlo, centellinarlo. Il fatto doveva essere spezzettato e visto in ogni singolo dettaglio e doveva poi essere collocato nel mosaico, nel puzzle con la logica dell’incastro e della posizione del tassello ritrovato. Nasceva così la visione unitaria che teneva insieme, dava linfa e struttura all’inter-connessione di tanti singoli avvenimenti. L’esempio più vivo è dato proprio dal processo Spatola che rappresenterà la prima ferrea ossatura del metodo Falcone.

Egli infatti comprende che la mafia ha fatto il salto di qualità per lucrare i suoi profitti, rivolgendosi al mercato della droga. Quest’ultima veniva procurata o in Turchia o in Francia o negli stessi Stati Uniti. Veniva raffinata a Palermo e poi rivenduta sempre negli USA.

Il problema che si pose per Cosa Nostra era di come collocare l’enorme quantità di danaro proveniente dal ricavato della vendita del mercato illecito della droga. Ecco allora che Falcone inventa, scopre, si dimena nel mare del riciclaggio del danaro sporco e comprende la stretta ed ineludibile necessità di deflorare le vestali ipocrite del sistema creditizio siciliano.

Il processo Spatola conferisce dimostrazioni, attraverso approfondite indagini bancarie, dello stretto legame esistente tra l’America e la Sicilia: Falcone ne studia nei recessi profondi la dinamica interna, seguendo la circolazione dei titoli di credito.

Fu Rocco Chinnici, una roccia di magistrato ostinato e poco incline alla diplomazia, per nulla affascinato dal potere, grande lavoratore a comprendere l’ingegno e l’acutezza di Giovanni Falcone. Era stato scelto come Capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dopo l’uccisione di un altro grande magistrato, Cesare Terranova avvenuta nel settembre del 1979.

Il processo Spatola, che Chinnici affidò a Falcone, era un’inchiesta sulla nuova mafia, quella dei traffici del riciclaggio, dell’eroina, dei legami con la massoneria. Ha un ruolo decisivo e fondamentale la figura  di Michele Sindona,  capo del più potente gruppo criminale dell’epoca arrivato ormai a governare il commercio mondiale della droga, attraverso le banche ed il rinvestimento in attività lecite di enormi capitali opportunamente “lavati”.

Spatola era un notissimo costruttore edile palermitano. Le sue imprese e i suoi cantieri erano disseminati in tutta la Sicilia, godeva di un riconoscimento anche politico da parte delle organizzazioni sindacali. Falcone aprì il suo libro nero e si ritrovò con le mani nella melma.

Così racconta Giuseppe Ayala, suo grande amico e sostituto procuratore al maxiprocesso: «Il metodo Falcone è un inedito impianto dell’istruzione di processi di mafia, che si avvaleva degli ordinari strumenti forniti dal codice adattandoli ad una nuova visione. La mafia, vista attraverso il processo Spatola, apparve come un mondo enorme, smisurato, inesplorato. Alla prima impressione sembrava che tutto fosse scollegato, si trattava quindi di riunificare tanti tasselli e di decifrare una realtà misteriosa. Non bastava dunque indagare a Palermo, in Sicilia. Falcone capì che se la polizia sequestra un carico di stupefacenti destinato agli Stati Uniti, era necessario recarsi in USA e capire gli effetti collaterali di quella operazione. Se l’eroina finisce negli Usa e ampiamente confermato che questo accadde e se viene pagata in dollari, non resta che cercare dove finiscono quei dollari. La droga può anche non lasciare traccia, il danaro invece sì. Detto fatto. Gli accertamenti bancari divennero il fulcro della nuova frontiera istruttoria. I direttori delle banche di Palermo e provincia ricevettero una lettera, con la quale si chiedeva l’invio di tutte le distinte di cambio di valuta estera, relative alle corrispondenti operazioni bancarie, a partire da un certo momento e sino alla data indicata. Una rivoluzione» (Giuseppe Ayala Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino- dal capitolo II Bisogna non essere soli).

Ha scritto un grande giurista  Giovanni Fiandaca: “Proprio la tesi della natura unitaria e verticistica  costituisce la premessa criminologica del pensiero giuridico e processuale sviluppato nei numerosi scritti e che li lega insieme come un filo rosso; e, come è noto, funge nello stesso tempo, da struttura portante di quel capolavoro giudiziario che è il maxiprocesso della metà degli anni ottanta» (Una rilettura degli scritti di Giovanni Falcone nel decennale della strage di Capaci ne Il Foro Italiano anno 2002, parte V, col. 201).

Il maxiprocesso si muove e nasce con questo metodo: Falcone ottiene la certezza dell’accoglimento delle sue tesi grazie alla testimonianza di Tommaso Buscetta, che fornisce “il codice interpretativo” della storia della mafia.

Era l’inizio dell’ estate del 1984 quando la polizia brasiliana arresta Tommaso Buscetta, raggiunto da un mandato di cattura internazionale. Decise di collaborare con Falcone perché, come lui stesso affermò dopo la strage di Capaci, era un uomo giusto: tra i due si intesse un gran rapporto di fiducia.

Falcone sostiene che i colloqui, tenutisi in gran segreto a Roma e riportati in 329 verbali scritti di pugno dallo stesso Magistrato, rappresentano “il precipitato di migliaia di anni di saggezza siciliana”. «Ci capivamo senza parlare. Era intuito ed intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a parlare con lui» ( Francesco La Licata Storia di Giovanni Falcone con la testimonianza di Anna e Maria Falcone, Biblioteca del Corriere della Sera, pag. 109).

Grazie alla sua preziosa testimonianza, arricchita poi dalla deposizione di un altro pentito Totuccio Contorno, si avvia quel maxiprocesso, che rappresenta il risultato di un grande gioco di squadra: quello del pool antimafia, con a capo Caponnetto, dopo la morte di Chinnici, il giudice istruttore ammazzato con il tritolo: Palermo come Beirut, così titolò L’Ora all’indomani della sua morte.

Racconta Ayala: «Dopo aver ascoltato Buscetta usavamo il tavolo da ping-pong, tante erano le carte da esaminare per organizzare la ricerca dei necessari riscontri ai contenuti dei verbali, i quali venivano consegnati a Caponnetto. La mattina del 29 settembre 1984 furono emessi 366 mandati di cattura e furono catturate intere famiglie mafiose, trasferite nelle carceri di massima sicurezza del nord, per evitare di passare per quello meno sicuro soprannominato per tal motivo “hotel Ucciardone”: questa volta si faceva sul serio l’operazione antimafia più importante del XX secolo fu definita giornalisticamente il blitz di San Michele».

Anche intoccabili finirono sotto scacco: il già sindaco di Palermo Vito Ciancimino ed Ignazio Salvo,  esattore siciliano, con suo cugino Nino, morto poco prima dell’inizio del processo, rappresentante la  potente famiglia che faceva da cerniera, con i suoi finanziamenti, tra la mafia e la democrazia cristiana palermitana.

Il Corriere della Sera di sabato 8 febbraio 1986 così descrive l’avvenimento giudiziario: «Si apre lunedì nell’aula bunker costruita all’ombra dell’Ucciardone il grande processo contro la mafia, ovvero agli ultimi ventitré anni di storia siciliana. Nelle 8607 pagine della ordinanza istruttoria viene descritto il passaggio dall’antica onorata società dei Genco Russo e dei Luchy Luciano alla moderna Cosa Nostra, associazione a delinquere che trae i suoi profitti dagli appalti, dagli inquinamenti politici, dal traffico di droga, dal crimine organizzato. E’ una vicenda con 474 imputati, novanta omicidi, una spietata guerra di cosche, nel contesto di un continuo e soffocante rapporto con la società civile e la pubblica amministrazione. La difficile ricerca del terzo livello, il ruolo dei pentiti, chiamati a confermare le sconvolgenti rivelazioni sulla cupola. Fra tutti si aspetta il racconto di Tommaso Buscetta».

Si dà conto che dal 1979 al 1982 sono falciati dalla lupara e dai kalashnikov il commissario Boris Giuliano, Cesare Terranova illustre magistrato, Michele Reina, segretario della democrazia cristiana siciliana, contraria alla corrente di Ciancimino, Pio La Torre, ideatore della famosa legge che consentirà a Falcone di applicare il 416 bis c.p nel seno delle imputazioni processuali, Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione siciliana, uomo del rinnovamento di Palermo, Rocco Chinnici, giudice istruttore che avrebbe voluto toccare i Salvo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale che aveva denunciato in una famosa intervista a Giorgio Bocca di Repubblica la debolezza dello Stato al cospetto della micidiale organizzazione mafiosa, Ninni Cassarà che con il capitano Pellegrini scrisse il rapporto di polizia Michele Greco +161, che rappresenta l’architrave del processo a Cosa Nostra.

Alla sbarra andarono 474 imputati, tra i quali Michele Greco, detto il papa, il capo dei capi della mafia siciliana, quello che presiedeva la famosa Commissione della Cupola descritta da Buscetta.

In un bellissimo libro scritto da Antonio Calabrò “I Mille morti di Palermo”( giornalista di un coraggioso quotidiano L’Ora, sempre in lotta contro la mafia), così e descritta l’ultima udienza, prima che la corte giudicante si ritirasse in camera di consiglio per rendere la sentenza.

«Io vi auguro la pace signor Presidente, perché  la pace è la serenità dello spirito e della coscienza. Ha la voce impastata delle grandi occasioni, don Michele Greco, detto il papa, “il capo dei capi” della mafia siciliana. Indossa un vestito grigio di buon taglio, camicia bianca, cravatta blu, capelli ravviati con cura, l’aspetto signorile di chi ha la consuetudine a gestire il potere e frequentare i potenti. Chiede la parola con aria grave. E comincia a fare gli auguri di pace. Sorprendenti forse minacciosi, comunque inquietanti, perchè siamo nell’aula bunker dell’Ucciardone e la Corte di Assise, presieduta da Alfonso Giordano, con giudice a latere Pietro Grasso, si sta ritirando in Camera di Consiglio, alla fine del maxiprocesso, per decidere la sentenza. È l’11 novembre 1987. Dopo 349 udienze,1314 interrogatori, due lunghissime requisitorie dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino e 635 arringhe difensive di una folla di oltre duecento avvocati, quel processo, forse il più grande processo penale della storia, con 475 imputati, cominciato il 10 febbraio 1986 e andato avanti tra colpi di scena, rivelazioni drammatiche, noiose schermaglie procedurali e grandi tensioni, sta arrivando alla conclusione. La mafia siciliana, in quei mesi, udienza dopo udienza, è stata messa all’angolo, schiacciata da prove, documenti, testimonianze, sconvolgenti confessioni di pentiti, a cominciare da quella di Tommaso Buscetta, don Masino, uomo di potere e di grande carisma. Ed ecco che a sorpresa, nella sua cella lungo i corridoi dell’aula bunker, si alza Michele Greco e con il suo accento palermitano di borgata, ingentilito dall’uso di mondo, ha la mano destra stretta alle sbarre della gabbia, la sinistra aperta a gesticolare, per dare enfasi alle parole più importanti e comincia il suo inusuale discorso.

Qualunque sia stato il motivo di quell’augurio di pace di certo la sceneggiata di don Michele non ha alcun effetto, perché la Corte di Assise, dopo 35 giorni di camera di consiglio, la più lunga che la storia giudiziaria italiana ricordi, entra in aula alle 18 del pomeriggio del 16 dicembre, per rendere una sentenza implacabile, mentre in una città piovigginosa ed infreddolita gira una strana aria di disinvolta vigilia di Natale e contemporaneamente di profonda inquietudine per gli esiti di un processo che investe in pieno gli assetti sociali, ma anche economici e politici siciliani e nazionali. E nel silenzio sospeso delle grandi occasioni il presidente Giordano pronuncia la sentenza. Durissima. Esemplare».

Il dibattimento si era protratto per 1820 ore, gli interrogatori erano stati 1314, gli atti processuali ammontavano a 666.000 fogli. Furono inflitti 19 ergastoli. L’ordinanza del rinvio a giudizio, varata e scritta nel carcere dell’Asinara, da Falcone e Borsellino, perché dall’Ucciardone era arrivato l’ordine di ammazzarli e Caponnetto ne dispose il trasferimento, conteneva oltre ottomila pagine.

Ayala racconta che prima dell’inverno del 1987 nell’estate dello stesso anno riuscì a ritagliarsi una vacanza con Falcone e la sua amata Francesca, senza l’ombra della scorta a Skiatos, in pieno Egeo. «Affittammo due motorini, una macchina ed un gommone. Non riuscivamo a stare fermi. Era una dimensione banalmente normale, ma per noi altrettanto banalmente eccezionale. Neanche un minuto di quella ritrovata libertà doveva essere sprecato. Roba da psicanalista, sentenziò Falcone ed aveva ragione. Si però dallo strizzacervelli ci si va dopo, intanto godiamocela. La qualità della vita non è determinata dalle grandi cose, ma dalle piccole, a condizione di essere capaci di apprezzarle. Eravamo sul gommone, sul finire della prima bottiglia di vino, mentre Giovanni si ostinava a pescare senza alcun apprezzabile risultato».

Le condanne del maxiprocesso, seppur ridotte in appello, furono mantenute e ribadite in Cassazione: prima della strage di Capaci Falcone vide che il suo capolavoro giuridico non fosse storpiato. Ma prima di Capaci morì, per l’invidia dei colleghi di Palermo, per l’arretratezza culturale dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, di una classe politica che non ne aveva capito (o forse opportunamente non volle capire) il suo inestimabile valore. Non riuscì a diventare capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, quando si dimise Caponnetto: gli fu preferito Antonino Meli. Il criterio dell’anzianità prevaleva su quello della professionalità che per Falcone era indiscussa.

Neppure fu nominato per l’Alto Commissario Antimafia: gli fu preferito in questo caso Domenico Sica.

Era il 10 agosto 1988. Mancavano solo dieci mesi per arrivare alla punta più alta della congiura contro Falcone: l’attentato all’Addaura, coronamento di un’opera di demolizione portata avanti da anni e con ogni mezzo, intensificata con la sporca montatura delle lettere anonime del corvo di Palermo e sfociata nel tentativo di cancellarlo con cinquantasette candelotti di dinamite. Diventerà procuratore aggiunto di Piero Giammanco, ma gli sarà impedito di lavorare.

Pur avendo ipotizzato la Superprocura non ne vide il varo:  abbandonò la Sicilia, per diventare direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, su iniziativa dell’allora ministro Claudio Martelli.

In un’intervista drammatica concessa a Repubblica il 20/07/1988 Paolo Borsellino denunciò che la lotta alla mafia non era più incoraggiante, perché il giudice Falcone non era più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxiprocesso. «Ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro di venti anni».

Falcone in una dolorosa lettera (13 settembre 1988) indirizzata al presidente del Tribunale di Palermo scrisse:

«Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa, le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società ero pago del dovere compiuto e consapevole… ero inoltre sicuro che le istruttorie alle quali ho collaborato erano state condotte nel più assoluto rispetto della legalità.  Quando poi si è prospettato il problema della sostituzione del Consigliere Caponnetto ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e professionalità che l’ufficio, cui appartengo, aveva globalmente acquisito… In quella occasione ho dovuto registrare infami calunnie ed una campagna denigratoria di inaudita bassezza, cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo imponesse il silenzio…. Quello che paventavo è avvenuto: le istruttorie nei processi di mafie si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è il gruppo cosiddetto antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo è ormai in stato di stallo.

Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato ed il suo coraggio, denunciando pubblicamente omissioni ed inerzie nella repressione del fenomeno mafioso, che sono sotto gli occhi di tutti. Come risposta è stata innescata un’indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto, riducendo tutto ad una bega fra cordate di magistrati. Ciò non mi ferisce particolarmente, a parte il disgusto per chi è capace di tanta bassezza morale ed allora dopo lunga riflessione mi sono reso conto che l’unica via praticabile è quella di cambiare ufficio».

Le dimissioni furono respinte.

Ha scritto Giuseppe D’Avanzo, prestigioso giornalista di Repubblica: «L’indipendenza e l’autonomia della funzione giudiziaria erano per lui valori ineliminabili. Non equivalevano ad un privilegio di casta, come appare ad alcuni magistrati, né un riconoscimento che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario egli pensava che autonomia ed indipendenza fossero le gravose responsabilità che la costituzione ha affidato al magistrato per garantire l’imparzialità del giudizio, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’efficienza della macchina giudiziaria.  Giovanni Falcone sentiva l’indipendenza del magistrato come risorsa, come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di servitore dello Stato.  Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito questa sua ostinazione e la sua ostinazione lo ha reso estraneo e fuori posto, in ogni luogo in cui gli è toccato di stare, tra i magistrati tentati dal potere e tra i politici innamorati dei magistrati quietisti sensibili al comando del potere: così è diventato un intruso da eliminare e calunniare, demolire» (Giuseppe D’Avanzo, Introduzione a Giovanni Falcone  in La Posta in gioco Interventi e proposte per la lotta alla mafia).

Enzo Biagi ricorda di aver detto a Falcone e alla sua sposa Francesca: “perché non fate un bambino. Non si fanno orfani rispose Falcone”(Ripensando a Falcone, Corriere della Sera del 23 maggio 2004).

Angiolo Pellegrini, il suo fedele capitano dell’anticrimine di Palermo, ricorda che in un’udienza per rogatoria internazionale in Canada, questa era la stima che tributavano a Giovanni Falcone:

«Il tribunale si trovava nel centro storico, proprio a ridosso del porto. Fu lì che si svolse la rogatoria. Alla prima udienza, non appena Falcone mise piede in aula, il magistrato canadese che presiedeva la Corte, con un gesto assolutamente fuori dall’ordinario, si alzò e lo invitò a sedersi sul suo scranno e a procedere con gli interrogatori, porgendogli addirittura l’ermellino della sua toga cerimoniale. Non credevo ai miei occhi, mi girai verso i colleghi per avere conferma della scena a cui stavamo assistendo. Lo stesso Falcone era rimasto di stucco e impiegò qualche secondo a riprendersi dalla sorpresa. Nemmeno lui si aspettava una tale deferenza, più unica che rara in un’aula di tribunale. Ma evidentemente anche in Canada, così come in Brasile e negli Stati Uniti, il supergiudice italiano che aveva sfidato la mafia godeva di un prestigio e di un’ammirazione sconfinati» ( Angiolo Pellegrini con Francesco Condoluci, Noi, gli uomini di Falcone – la guerra che ci impedirono di vincere, Sperling& Kupfer, pag.198).

Falcone sapeva di essere un cadavere che cammina e di entrare nel bersaglio della mafia, come primo fra coloro da assassinare. Così confidò a Francesco La Licata: «Ma cosa credono questi signori. Davvero sono convinti che siamo tutti uguali. Credono che mi stia salvando la vita? Io non ho paura di morire. Sono siciliano io e per me la vita vale meno del bottone della mia giacca».

Quando nacque Giovanni Falcone, racconta la sorella Maria, “entrò in casa una colomba bianca. Arrivò dalla finestra di uno stanzino e non volle mai più uscire. Non era ferita. È rimasta in quella camera e noi l’abbiamo nutrita: non è mai fuggita, anche se la finestra rimaneva aperta”.

 

TAG: mafia
CAT: Criminalità

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