La “Sacra corona unita”: da “quarta mafia” a fenomeno (soltanto) mediatico

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19 Dicembre 2015

Le cronache di molti quotidiani, del Sud in particolare, hanno riferito in questi giorni di una importante operazione della magistratura che ha squarciato il velo su di un sistema politico-mafioso cittadino (quello di Parabita, novemila anime a nord di Lecce) governato dalla “Sacra corona unita”. Non ho letto le carte dell’inchiesta e non posso, perciò, esprimere giudizi nel merito; qualcosa però, sul piano della comunicazione e dei messaggi indirizzati all’opinione pubblica, non torna. Parto da un’esperienza vissuta di recente, affinché tutto non appaia troppo astratto.

Essere il solo pugliese nel programma di un’importante conferenza internazionale sul crimine organizzato può rappresentare un pregio e un difetto; specularmente, come si dice in questi casi, un onore e un onere. Perché se da un lato sul tema delle mafie di Puglia viene lasciata carta bianca a quell’unico relatore, potendo costui creare per l’occasione verosimili – o inverosimili – narrazioni “mafiologiche” senza il timore di confutazioni, dall’altro si accendono d’improvviso attenzioni e interesse: le sue parole vengono scrutinate, soppesate, interpretate, in un tale contesto persino tradotte in altre lingue; in specie se il tema è di grande suggestione – come può non esserlo l’immagine di una “quarta mafia” che rosicchia prestigio e profitti alle tre mafie italiane tradizionali? – ma non ha finora goduto di studi teorico-ricostruttivi di rilievo, fatta qualche eccezione.

Quando ho saputo che avrei dovuto essere tra i relatori della conferenza generale dello “Standing group on organized crime”, svoltasi a Napoli l’11 e 12 dicembre alla presenza dei più importanti studiosi del mondo e dei vari prosecutors “antimafia” nazionali (e per l’Italia ha ben presenziato Franco Roberti, il capo della Direzione nazionale antimafia), e che, per di più, sarei stato l’unico pugliese, chiamato ad affrontare le problematiche mafiose che mi erano – territorialmente – più vicine, ho pensato che non avrebbe avuto senso rimanere abbottonati. Ho pensato che il tema andasse affrontato di petto, e che quei venti minuti messi a disposizione dovessero essere ben spesi. Nel programma dei lavori era apparso così, fin dal mese precedente, un titolo eccentrico ma che aveva, se non altro, il pregio della chiarezza: “The end of Sacra corona unita, the Apulian Mafia”. Il messaggio sarebbe stato compreso da tutti, anche da chi l’inglese non lo mastica. Ma non è un titolo ad effetto; l’effetto, semmai, lo produce una realtà delle cose che, proprio perché tale, è sotto gli occhi di tutti.

La Scu è stata una mafia spregiudicata, violenta, d’una violenza irrazionale. Dalla metà degli anni Ottanta agli inizi del Duemila, ha diffuso sulle popolazioni salentine ampi aloni di intimidazione e assoggettamento, ha percorso la via dello stragismo, ha forgiato i criminali più pericolosi d’Italia. Sono stati in molti ad aver subìto: commercianti, intere famiglie che si sono visti scippare padri e figli, gli stessi giornali hanno pagato un prezzo altissimo per mantenere integre autonomia e libertà d’informazione, con attentati e minacce ai suoi cronisti di punta. Episodi che si sono oramai perduti nell’ampia e anarchica memoria collettiva, e che talvolta si farebbe bene a rievocare. Ma la Scu è stata – caso unico nel quadro delle mafie italiane – debellata dalla magistratura salentina, anche perché, nel volgere di pochi anni (tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila), è implosa a causa di una conflittualità interna insanabile e di un dilagante pentitismo, disintegrando in tal modo le proprie strutture. Ovviamente non esiste un certificato di morte avente data certa: eppure la storia ci ha mostrato come l’omicidio del commerciante leccese Antonio Fiorentino sia stato l’ultimo atto eclatante di quella mafia, e Filippo Cerfeda l’ultimo dei boss. L’uno ucciso, l’altro catturato, entrambi, nel marzo del 2003, a pochi giorni di distanza. Dodici anni e nove mesi fa.

È pur vero, però, che se da un lato la vicenda mafiosa della Sacra corona unita sul piano storico può dirsi del tutto esaurita, dall’altro oggi essa si trasfigura, comunque, in un “marchio”, un brand, che i gruppi ed i criminali randagi – che non sono più inseriti in una federazione di tipo mafioso – utilizzano e sfruttano in maniera indiscriminata per conseguire una maggiore carica d’intimidazione: benché non vi sia più la capacità militare né la propensione al controllo monopolistico delle attività economiche, permane – entro uno spettro di gradazioni molto ampio – l’influenza su alcune fette di società. In altri termini, può accadere che non vi sia più il clan, svasato dagli arresti e dalle condanne, ma rimangano i singoli malavitosi con un passato criminale alle spalle, in quel paese da tutti conosciuto: e questo può bastare. Crescere in contesti mafiosi, o averli vissuti a lungo, può lasciare tracce profondissime negli attori di una società locale. Ma, appunto, la percezione dei singoli che prolifica in determinati contesti è ben diversa dalla realtà delle cose: che certifica “la fine della Sacra corona unita, la mafia pugliese”. Una realtà, ancora una volta, disattesa dal messaggio semplicistico e poco rispondente a dati storici consolidati che è stato lanciato in questi giorni.

Giacché ci siamo, vale la pena riflettere – come si sta cominciando a fare – su quanto strano sia stato il destino della Scu. Fino alla fine degli anni Ottanta, istituzioni ed opinione pubblica consideravano questa escrescenza criminale come una piccola metastasi, non letale e ben circoscritta; mentre la si considera, oggi, una mafia potente e radicata: la mafia “della Puglia”; ancora, la “quarta mafia”. Sottovalutata negli anni di massima espansione e radicamento, ampiamente sopravvalutata in un presente che non la vede più esistere in quanto struttura mafiosa; se non in una dimensione tutta mediatica, ove, com’è noto, ogni lettura critica dei fenomeni è rigorosamente bandita.

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CAT: Criminalità

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