“Così è nato il mio reportage sul Caso Regeni”: intervista ad Alexander Stille

10 Ottobre 2016

La recente pubblicazione della perizia in base alla quale Stefano Cucchi sarebbe morto per le conseguenze di un attacco epilettico ha risvegliato nella pubblica opinione (e anche attraverso una memorabile animazione di Makkox) la dolorosa ferita del caso Regeni. Sul quale, quasi in contemporanea, il Guardian ha pubblicato un lungo e dettagliatissimo reportage a firma di Alexander Stille, classe 1957, pluripremiato professore di giornalismo alla Columbia University nonché firma del New York Times, del New Yorker e di Repubblica.

A Stille, statunitense, figlio di Ugo (che fu direttore del Corriere della Sera), profondo conoscitore dell’Italia, abbiamo chiesto delle sue ricerche sul caso Regeni e più in generale sul mestiere del reporter a cavallo tra metodo anglosassone e opacità mediterranee.

Non si è visto su alcun giornale italiano un reportage così esaustivo su Giulio Regeni. Come nasce e come mai sul Guardian?

La prima difficoltà è stata trovare un giornale disposto a ospitare pezzi così lunghi. Il Guardian da un paio di anni ha adottato un format, The long read, con pezzi di 5-7000 parole; l’editor viene dal New Yorker che ha una grande tradizione di lungo formato. Essendoci anche un coinvolgimento inglese nella storia di Regeni, attraverso l’Università di Cambridge, ho pensato al Guardian che mi ha dato la possibilità di occuparmene.

Hai avuto carta bianca su come e quando viaggiare?

Dopo il sì iniziale mi hanno espressamente chiesto di non andare in Egitto, dove la situazione interna stava deteriorandosi. Allora mi sono chiesto se fare o meno questo pezzo, ma il tempo e un viaggio in Italia sono stati molto utili. Questa storia era stata raccontata a pezzi man mano che le cose accadevano senza la possibilità di correggere errori o aspetti inesatti e rimettere tutto assieme in un modo più dettagliato e organico. In più i quotidiani tendevano a enfatizzare gli elementi eclatanti perdendo in qualche modo di vista la cosa fondamentale: il contesto egiziano. Omettendo che la chiave dell’omicidio di Giulio Regeni sta proprio nel precipitare della situazione interna in Egitto, nell’atteggiamento repressivo del regime di al-Sisi, specie dopo la strage di Piazza Tahrir del 2011.

Avevi già esperienze specifiche sul campo?

Per un pezzo di archeologia nel 2015 ero già andato un paio di volte al museo egizio in Piazza Tahrir e ogni volta c’erano più carri armati, più soldati, si sentiva la tensione che saliva dalla città con l’arrivo dell’anniversario della strage. Posso immaginare molto facilmente l’atmosfera in città il giorno della scomparsa di Giulio Regeni. Questo contesto per me non è stato comunicato bene: i giornalisti che lavoravano in Egitto lo davano per scontato mentre i cronisti italiani si concentravano sulla rivelazione dell’ultima ora.

Da noi tanta emotività, poca cronaca, il coraggio dei genitori, le parole ufficiali. Forse è un caso che andava inquadrato da una prospettiva esterna? O è proprio il modo di fare giornalismo che è diverso?

Se scrivi un pezzo così per un pubblico non italiano o non egiziano devi spiegare tutto, non dare nulla per scontato. Questo è comunque valido come principio di giornalismo: cominciamo da capo e rivediamo cosa sappiamo davvero. Molte cose che si sono dette durante le prime settimane sono risultate poi inesatte; rivedere tutto da capo non è una cattiva prassi giornalistica. Negli USA esiste questo tipo di giornalismo narrativo, ed è proprio quello che mi ha attirato verso questa professione. Ma non c’è solo in America: molti hanno dimenticato certi saggi di V.S. Naipaul degli anni ’70 e ‘80 o di Sciascia, narrativi ma basati sulla storia o sulla realtà, fondamentali nella mia formazione giornalistica. Questa tradizione, forte negli USA, altrove rappresenta un’eccezione (ad esempio settimanali come Espresso o Panorama non pubblicano pezzi di quel tipo o lunghezza), non so se per ragioni culturali o economiche.

Posso chiederti allora del lato economico?

Il budget è fondamentale. Ho fatto diversi reportage di questo tipo per il New Yorker in passato e possono pagarti l’equivalente di 15-20.000 euro per un servizio. A quel punto puoi dedicare dei mesi a quel singolo lavoro e alla fine hai la consapevolezza di aver raccontato una storia a fondo. Il Guardian paga circa un terzo ma è comunque un budget ancora sufficiente per raccontare bene una storia. Personalmente insegnando all’Università posso permettermi il lusso di accettare un servizio di questo genere; ma se dovessi vivere esclusivamente di scrittura, come ho fatto per anni, sarebbe impossibile nel mercato di oggi.

Questo modo di fare giornalismo, paga almeno in termini di popolarità?

Mi ha sorpreso molto la risposta a questo pezzo, non sapevo cosa aspettarmi e ha riscosso invece grande interesse. Il Guardian raggiunge un grande pubblico e a differenza del Financial Times o del Washington Post è gratis on line. Nei social media i pezzi più rilevanti si diffondono con rapidità, per esempio nel mondo arabo è stato subito tradotto (senza autorizzazioni).

Il ruolo di internet è stato importante, non solo in termini di diffusione delle notizie ma anche di sorveglianza. Le persone legate a Giulio, come hai raccontato, hanno fornito le registrazioni di tutti gli scambi avuti con lui attraverso la rete, mettendo a disposizione degli investigatori italiani la loro corrispondenza privata, una sorta di crowdsourcing della verità.

È servito. Man mano che gli investigatori italiani accumulavano informazioni il loro potere negoziale coi colleghi egiziani cresceva, come in una partita a poker. A un certo punto gli egiziani sono stati costretti a dare risposte più concrete, più vicine alla verità. Sono stato piacevolmente sorpreso da certi pezzi che ho trovato sui media egiziani, blog e giornali on line sia in arabo sia in inglese, che hanno pubblicato cose molto utili. Ho trovato, inoltre, fonti egiziane che hanno potuto parlare con me dall’Egitto mediante programmi di criptazione on line senza paura di essere ascoltati dalla polizia.

Senza i social media parleremmo ancora del caso Regeni?

I social media non possono fare tutto. Hanno aiutato a tenere vivo il caso Regeni. Gli egiziani vivono uno stato di repressione molto forte. L’opinione pubblica di solito aiuta a correggere gli errori del governo che altrimenti si comporterebbe come un cantante con le cuffie che non si accorge di stonare. È chiaro che nell’800 per ragioni di stato o rapporti commerciali si potevano raccontare storie che oggi, grazie ai social media, vengono sistematicamente smontate.

Allargando l’inquadratura, per finire, come valuti il momento globale alla vigilia delle elezioni USA?

Sono molto preoccupato: il malcontento cresce, la UE è sorda, sembra non avere imparato nulla dalla Brexit e non riesce a trasmettere fiducia ai paesi membri né un senso di futuro ai giovani. Per fortuna negli USA Trump come fenomeno si sta autodistruggendo ma ho paura che il populismo troverà forme sempre nuove.

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CAT: Editoria

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