Chi avrebbe dovuto proteggere Nicolina, uccisa dallo stalker della madre?

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26 Settembre 2017

Una 15enne uccisa con un colpo di pistola in faccia come si fa con i boss mafiosi. È successo a Nicolina, adolescente di Ischitella, in provincia di Foggia. La sua “colpa”? Quella di non aver detto dove si trovava sua madre all’uomo che la perseguitava, Antonio Di Paola, il quale poi si è suicidato.

A posteriori era un femminicidio annunciato: tutti sapevano che sarebbe successo e nessuno ha fatto nulla per impedire che accadesse. In particolare la madre di Nicolina, Donatella Rago, disperata, accusa un certo numero di persone: innanzi tutto la propria figlia, perché lei “l’aveva avvisata”, ma Nicolina le aveva risposto che non voleva “chiudersi in casa”. La signora Rago inoltre punta il dito contro i servizi sociali e i nonni che l’avevano in affido, perché avrebbero dovuto proteggerla, ma non l’hanno fatto.

Eppure nemmeno i genitori erano accanto a lei quando è stata aggredita: separati, vivevano in Toscana entrambi. La madre era fuggita dallo stalker rifacendosi la vita con un altro uomo e lasciandosi indietro due figli, che le erano stati sottratti; quanto al padre di lei non sappiamo nulla, se non che ora desidera che Nicolina sia sepolta a Viareggio, dove lui vive e la ragazza era nata.

Insomma, chi avrebbe dovuto proteggere Nicolina? Se stessa? La famiglia? Lo Stato? Lo abbiamo chiesto a Marco Montanari, esperto in psicologia dello sviluppo e nuove tecnologie presso l’Università la Sapienza, attualmente iscritto al Cipa di Roma (la prestigiosa e antica scuola italiana di psicoterapia ad indirizzo junghiano).

Nicolina non voleva “rinchiudersi in casa”. Alcune femministe sostengono che invitare le donne alla prudenza è sessista, perché focalizza l’attenzione su di loro invece che sull’uomo responsabile dell’aggressione (stupro o femminicidio che sia). Secondo lei questo punto di vista è corretto?

«Credo che qui i piani siano diversi. Infatti Nicolina non era in pericolo in quanto donna, in quanto essere femminile, ma in quanto figlia di una donna. Il discorso però potrebbe avere senso se accettiamo l’idea di una proiezione della madre sulla figlia: la signora Rago, parlando con Nicolina di Antonio Di Paola e della sua presenza minacciosa, si è immedesimata nella figlia e le ha detto quello che avrebbe fatto lei stessa. Da ciò si potrebbe forse definire corretto questo punto di vista, o almeno possibile. Come tutti i discorsi di questo genere, però, c’è il rischio di trascendere un dato di realtà: una madre a centinaia di chilometri di distanza che si trova a dare consigli a una figlia che è stata affidata ad altri. Per assurdo non avrebbe potuto neanche dirle “vieni qui da me” perché legalmente impeditole».

Perché l’assassino l’ha uccisa?

«Anche qui l’unica spiegazione che vada oltre al raptus è la proiezione: l’uomo ha visto in quella ragazzina la donna con cui aveva avuto una storia, non una minorenne che tornava da scuola. Infatti prima le chiede dov’è la madre, come se lei potesse indicarle la via per concretizzare la sua vendetta. Poi, vedendosi questa strada negata, vede Nicolina come l’unica incarnazione possibile e raggiungibile della madre. E l’uccide.

Anche se la storia non si fa con i se, possiamo pensare che se Donatella fosse rimasta nel paese sarebbe stata uccisa già da qualche tempo da questo uomo, sarebbe stata lei vittima dell’ennesimo femminicidio».

E perché poi si è suicidato?

«Si può ipotizzare che nell’uomo abbia agito la disperazione del sentire che la propria vita fosse finita nel momento in cui era stato lasciato. Tanto che la colpevole di tutto meritava di morire in quanto aveva ucciso la sua, di vita, lasciandolo. Una logica distorta che nasce dall’idea che anche le persone più negative credono di essere vittime di qualcun altro.».

La madre incolpa i servizi sociali e i nonni affidatari di non aver protetto Nicolina. Ma lei stessa aveva cambiato regione, andando in Toscana. Chi avrebbe dovuto tutelare la ragazza? Alla fine non si è ritrovata da sola a fronteggiare gli errori della madre?

«Legalmente parlando la figlia era stata tolta alla madre dai servizi sociali e affidata ai nonni. Si tratta di un atto estremo che nasce da una situazione difficile, spesso fatta di abbandoni o di difficoltà economiche estreme. La tutela della figlia non spettava a lei. Anche dire che Nicolina ha pagato per gli errori della madre è fuorviante.

Alla fine rimane il fatto che l’adolescente si è ritrovata sola davanti al suo assassino: anche se era in pieno giorno, anche se era in un contesto comunque affollato, anche se la polizia sapeva che Antonio era violento, anche se… Rimane il fatto tragico che una persona abbia trovato la lucidità malata di trovare una pistola, nasconderla, cercare la ragazzina, spararle per poi suicidarsi a sua volta».

La madre in Toscana si è rifatta una vita sentimentale. Il modello della famiglia allargata è davvero possibile? O non presenta un prezzo che pagano i figli?

«La famiglia allargata è inevitabile nel caso di separazioni: la vita non si ferma. Come tutte le relazioni famigliari, i rapporti interni di una qualunque famiglia allargata devono essere curati e, soprattutto, chiari. Dalle poche informazioni disponibili non mi sembra essere questo il caso di una famiglia allargata quanto, piuttosto, quello di una situazione critica determinata anche dalla fragilità economica del contesto».

Il padre naturale di Nicolina resta un fantasma: come può essersi disinteressato in questo modo di una figlia sotto minaccia?

«Questa assenza è la più eclatante in effetti, ma fa parte di una cultura per cui i figli sono della madre e il padre è quasi accessorio: una cultura ancora molto forte. Un dato di fatto che spiega anche perché Nicolina fosse stata affidata ai nonni, tra l’altro».

TAG: famiglia allargata, femminicidio
CAT: Famiglia, Psicologia

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