Genova si reinventa puntando su porto, turismo e startup

29 Ottobre 2017

«Con quella faccia un po’ così/ quell’espressione un po’ così/che abbiamo noi/prima di andare a Genova…» Così cantava negli anni ’70 l’astigiano Paolo Conte. Allora Genova era, dopo Milano e Torino, una delle locomotive di un’Italia al culmine di un travolgente processo di industrializzazione. Uno dei vertici (il più meridionale, il più debole) del cosiddetto “triangolo industriale”, capace di attirare talenti e braccia da tutta Italia. Gli artigiani toscani, i laureati sardi e i contadini siciliani approdavano in questa città lunga e stretta che Guido Piovene, nel suo “Viaggio in Italia”, aveva paragonato a Londra, dilungandosi sulle differenze tra la borghesia genovese, cauta e riservata, “inglese”, e quella milanese, più “americana”.

Sono passati oltre quarant’anni dalla prima esecuzione di “Genova per noi”, e oggi Genova è un’altra cosa. «La situazione odierna è quella di una città che si sta reinventando – spiega a Gli Stati Generali il professor Giovanni Assereto, fino allo scorso anno ordinario di storia moderna all’Università di Genova – Tra il XIX secolo e la prima metà del Novecento Genova è stata anzitutto una città industriale. Con un tipo di industria prevalentemente finanziata dallo Stato; quando questo tipo di industria è venuta meno, c’è stata la grande crisi di Genova. Da allora la città ha dovuto reinventarsi, e in parte lo ha fatto».

La crisi di Genova, sia chiaro, è stata diversa da quelle che hanno investito il resto dell’Italia. Come ricordava un decennio fa Curzio Maltese in un lungo articolo per Repubblica, tra gli anni Ottanta e Novanta la fine della grande industria aveva cancellato “centomila posti di lavoro e duecentomila abitanti”. Fosse successo in un’altra regione d’Italia, sarebbe esplosa la rivolta. Non a Genova, che ha saputo dare prova di vero self-control. Indispensabile, per provare a cambiare pelle.

«Molte delle aree industriali o portuali non più all’altezza della portualità contemporanea – dice Assereto – sono state riconvertite. Il caso del Porto antico è il più clamoroso. È stato un grande successo a livello di immagine e di turismo, trattandosi di un pezzo di porto che ormai non aveva più ragione d’essere come porto commerciale, dato che il vero porto si era spostato tutto a ponente».

Sono gente pragmatica, i “zenesi”. In questa terra di mercanti, che per secoli ha accolto (più o meno gentilmente) torme di immigrati a caccia di lavoro, i rivoluzionari e i radicali tendono a cercare fortuna politica altrove: Mazzini nacque a Genova ma visse a lungo esule a Londra, e morì a Pisa; e la patria di Beppe Grillo ha eletto, alle recenti amministrative, Marco Bucci, ex manager candidato dal centrodestra. Il suo predecessore, il sindaco arancione Marco Doria, è un accademico. «Genova è una città concreta – spiega un piccolo industriale che preferisce non rendere noto il suo nome –. Del resto il capitalismo è nato qui, qualcosa vorrà pur dire… Ecco perché certi fenomeni politici e culturali che nel resto d’Italia vanno forte, qui hanno meno presa».

Oltre a essere capitalista dal XVI secolo, Genova è sempre stata piuttosto cosmopolita. «La nostra è una città tradizionalmente abituata ad avere a che fare con lo straniero. Se lei gira per il centro storico di Genova si accorgerà che molti residenti sono africani, sia maghrebini che subsahariani, e sudamericani (qui c’è forse la maggior colonia ecuadoregna d’Italia) – spiega Assereto –. Vedrà che molti di loro, tutto sommato, si sono integrati bene, e che le attività che hanno avviato, specie a livello commerciale, funzionano. Certo, il nostro non è un paradiso, ma la tradizionale apertura allo straniero un po’ resiste».

Certo, talvolta le tensioni ci sono, per esempio nel quartiere di Multedo, recentemente assurto alle cronache nazionali. Come nel resto d’Italia, anche nel genovese taluni parlano, a sproposito, di “invasione”: in realtà il fenomeno migratorio è in calo. Causa di ciò, almeno in parte, una performance non sempre brillante dell’economia locale. La recente chiusura di uno degli hotel più rinomati di Genova, ad esempio, non è una buona notizia per un industria turistica che aspira a essere un volano di sviluppo.

E tuttavia si respira anche un po’ di ottimismo in quella che rimane la terza area metropolitana del Nordovest per numero di aziende. Un’area, per inciso, che ha saputo resistere alle sberle della grande crisi economica, dimostrando una resilienza paragonabile a quella di province come Bolzano, Vicenza, Milano e Modena. Nonostante tragedie come la drammatica alluvione del 2014, con i suoi effetti devastanti non solo sulle persone, ma sul tessuto produttivo.

Il porto, ad esempio, sta conoscendo una nuova giovinezza. Secondo un’elaborazione della Assoporti, il porto di Genova è il secondo d’Italia: vi transitano oltre 2 milioni di TEU, contro le 615mila del 1995. La filiera portuale genera nella sola Liguria un totale di 54mila occupati, e 4,6 miliardi di valore aggiunto. Ma a trarre beneficio dal porto sono anche altre regioni: in primis il gigante lombardo, che in Genova ha storicamente il suo porto di riferimento, e poi i confinanti Piemonte ed Emilia-Romagna, il Veneto, il Lazio…

E si sta tornando ad investire: 328 milioni di euro tra il 2017 e il 2019, per il sistema portuale di Genova-Savona. Complice un’eccellente posizione geografica (e il recente raddoppio del canale di Suez), la Lanterna ambisce a diventare un hub primario per il traffico tra l’Asia e l’Europa, a scapito dei porti nordeuropei. Un po’ come accadeva nel XIII secolo, mutatis mutandis

C’è poi il turismo. Capitale europea della cultura nel 2004 (con la francese Lille, altra città alle prese con deindustrializzazione e necessità di reinventarsi), negli ultimi anni Genova si è rivelata una delle destinazioni emergenti del turismo in Italia. I media internazionali hanno dedicato ampio spazio al centro storico genovese (i Rolli sono un bene protetto dall’UNESCO dal 2006), e gli arrivi da tutta Europa nonché da Russia, USA e India hanno contribuito a trasformare il turismo nella seconda industria locale, dopo l’imbattibile porto. A giugno, ad esempio, sono state toccate le 455mila presenze: +6% rispetto a giugno 2016.

Infine, la tecnologia. Ultimamente, a Genova, si è discusso molto di knowledge economy. Lo conferma a Gli Stati Generali Nicoletta Buratti, professore associato di marketing e management dell’innovazione presso l’Università di Genova. «La città è stata oggetto, in anni recenti, di alcuni importanti cambiamenti, che hanno gettato le basi per un rilancio del territorio basato sull’innovazione e le nuove tecnologie. Se dovessimo individuare una data precisa, ritengo che il 2005 rappresenti una tappa miliare in questo processo». Nel 2005, infatti, «viene avviata l’attività della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia (nata in realtà due anni prima) e l’Università dà vita, con il BIC Liguria, al consorzio Università Trasferimento Tecnologico Impresa».

Oggi l’IIT vanta un portfolio di 552 brevetti e 211 invenzioni, e l’Università ha dato vita a una quarantina di aziende ad alta intensità tecnologica. Per Guido Conforti, vice-direttore della Confindustria Genova, «la città, prima di altre, si è fortemente terziarizzata. Ha innovato il suo tessuto produttivo in maniera molto particolare, e direi che ha trovato, pur con difficoltà, una strada di sviluppo che fa leva proprio su un’evoluzione del suo assetto produttivo e una forte interrelazione con chi fa ricerca e innovazione».

Nel complesso, operano nell’area di Genova 139 startup innovative: si va dalla classica azienda di produzione software alla realtà attiva nell’imaging reumatologico, passando per la nuova impresa specializzata in strumenti ottici. Dalla loro c’è un ecosistema innovativo in fieri. Osserva Conforti: «c’è un gran numero di attori che spingono in questa direzione, compresi degli incubatori, sia privati come il Talent Garden o il Wylab di Chiavari, che pubblici. Ad esempio sta partendo a Erzelli l’incubatore gestito dall’IIT».

Tra queste startup c’è HolaBoat, fondata da due imprenditrici di 39 e 35 anni. «HolaBoat è una piattaforma web per la condivisione di esperienze in barca. Consente a chi possiede una barca di metterla a disposizione, ad esempio per uscite di navigazione con altri ospiti a bordo, a chi cerca questo genere di esperienze – racconta Serena Peana, una delle due fondatrici –. Abbiamo sviluppato anche una versione più legata al servizio ricettivo; la barca diventa un boat and breakfast, rimane ormeggiata in banchina e viene noleggiata come una sorta di B&B galleggiante, con la possibilità di aggiungere un’uscita il giorno dopo».

Certo, non è facile lanciare una startup, a Genova come nel resto d’Italia. «È difficile trovare investitori, nel nostro paese manca l’abbondanza di VC che esiste in altre nazioni – osserva Peana –. Però Genova ha un grande potenziale per una startup del nostro tipo. Naturalmente ci vuole pazienza, è una città che si fa scoprire poco a poco. Ha una quantità di beni culturali sconosciuti ai più, un patrimonio storico e culturale immenso tutto da valorizzare (e in questo si notano già dei cambiamenti); e poi, naturalmente, c’è il mare!»

Anche D-Heart è nata a Genova, nel 2015. La startup ha sviluppato un innovativo elettrocardiografo per smartphone, low-cost, tascabile e affidabile dal punto di vista clinico. «L’ho fondata con il mio compagno di stanza all’università, Niccolò Maurizi: lui a 16 anni ha avuto un infarto, e ha vissuto sulla sua pelle tutte le inefficienze esistenti nella cura delle malattie cardiovascolari, e oggi è anche ricercatore di medicina a Firenze» racconta Nicolò Briante. Il dispositivo, che è stato sperimentato prima in una clinica italiana e poi sul campo in Senegal, potrebbe avere un impatto rivoluzionario sulla cardiologia nei paesi in via di sviluppo; infatti con D-Heart basta avere uno smartphone per eseguire un elettrocardiogramma nel più remoto villaggio del Kivu o del Nalanda, e spedire via email i risultati a un cardiologo ovunque nel mondo.

Secondo Briante, nel genovese esistono realtà dal grande potenziale innovativo, «ma tutte un po’ scollegate. Manca magari la mentalità… può sembrare paradossale ma talvolta è più facile fare sistema con persone ubicate a Milano che nella nostra stessa città». Al giudizio di Briante si affianca quello di Buratti. «Il sistema della ricerca è senz’altro uno dei maggiori punti di forza dell’ecosistema genovese dell’innovazione; ma nonostante l’impegno e gli sforzi volti a favorire il trasferimento tecnologico e stimolare l’imprenditorialità, c’è ancora una capacità limitata di attivare processi virtuosi. Credo che fra i principali fattori di debolezza vi sia da un lato la capacità di “fare rete” fra i diversi attori dell’ecosistema, e dall’altro la limitata tendenza da parte della grande impresa a collaborare con le startup innovative in un modello di open innovation».

Scarseggiano poi gli investitori, e la voglia di scoprire l’innovazione che c’è a casa propria. «Comunque alla fine – continua Briante – per la nostra startup abbiamo trovato un investitore di Genova. Per fortuna esistono persone convinte che l’innovazione possa nascere anche al di fuori di Roma o Milano». A Genova, per esempio.

 

TAG: crisi, economia, genova, innovazione, Investimenti, mare, porto, ricerca, startup, tecnologia, turismo
CAT: Genova, Innovazione

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