Scifo, Lukaku e gli altri: autobiografia calcistica del Belgio multietnico

21 Novembre 2015

Un canale taglia in due Molenbeek-Saint Jean, la città-satellite di Bruxelles dove sono cresciuti Abdelhamid Abaaoud, l’ideatore degli attentati di Parigi, e i fratelli Ibrahim e Salah Abdeslam, uno morto suicida in Boulevard Voltaire, l’altro ancora latitante. La via d’acqua Bruxelles-Charleroi è una specie di superclassico del paesaggio fiammingo, nessuno ci fa troppo caso, e però il ponte che collega rue Antoine Dansaert e le Chaussée De Gand tiene assieme due mondi radicalmente diversi. Da un lato c’è un quartiere délabré della Vecchia Europa, con un reddito pro capite di 11.602 euro (dato 2009). Dall’altro, una realtà decisamente più difficile, connotata da forte incremento demografico (+25%, dal 2006 al 2013 il numero di bambini in età scolare è passato da 4.199 a 5.082) e da una presenza musulmana che sfiora il 40%. Qui il reddito pro capite scende sino a 6.390 euro, la disoccupazione giovanile sfiora il 50%.

Prima degli attentati di Parigi, proprio le due sponde del canale erano al centro di un fenomeno di gentrification che negli ultimi anni ha rimodellato la popolazione della cittadina. Qualcuno, giocando sullo stereotipo del belga sempre in bicicletta, dice che quella è la zona dove si vedono le bici pieghevoli, mentre nelle parte araba dominano ancora la mountain bike. A fronte di questo recente interesse immobiliare, un bilocale qui costa meno di 600 euro di affitto mensile. E d’altronde, il reddito pro capite, mettendo assieme il vecchio Dansaert e il quartiere nuovo, resta comunque sotto i 10mila euro (9.449), ossia il 40% in meno della media nazionale.

Attenti però alle conclusioni affrettate: i fratelli Abdesalam e lo stesso Abaaoud sembrano venire da famiglie benestanti: i primi possedevano un bar-il più malfamato di Molenbeek a dire il vero, snodo dello spaccio di hashish e della rivendita di pezzi d’auto rubati, e come nucleo famigliare – Salah lavorava per Ibrahim – dichiaravano 100mila euro l’anno. Il secondo è in una famiglia di commercianti di abbigliamento, che lo ha anche mandato al Collège Saint-Pierre d’Uccle, una scuola cattolica di Bruxelles. Il milieu conta insomma ma sino a un certo punto. Provare a tracciare un profilo di Molenbeek serve però ad andare oltre il luogo comune delle banlieue/polveriera, per chiedersi oggi cos’è il Belgio. Alla vigilia degli attentati di Parigi “Le Plat Pays” era sulle pagine dei giornali europei soprattutto per il primo posto raggiunto dalla propria nazionale di calcio nel ranking internazionale. Un risultato storico per un Paese di soli 10 milioni di abitanti, e che non si può spiegare senza l’apporto degli immigrati.

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Vincenzo Scifo, con la maglia della nazionale belga

Se già negli Anni Ottanta-Novanta tra le maglie dei “diavoli rossi” figuravano giocatori di origine italiana o dell’Est Europa (Vincenzo Scifo e la punta dell’Anderlecht Alex Czerniatinsky, per fare gli esempi più celebri), oggi il Belgio è una vera e propria multinazionale, che rispecchia la trasformazione demografica del Paese. Ci sono i congolesi, come il centrale difensivo Vincent Company e gli attaccanti Christian Benteke, Romelu Lukaku e Michy Batshuayi  ; c’è Alex Witzel, centrocampista di origini caraibiche; Marouane Fellaini, con il suo improbabile cespuglio di riccioli che sembra uscito da un film della blacksploitation, e che ha passaporto marocchino, così come l’ala del Tottenham Nacer Chadlii, e ancora il maliano Mousà Dembelé, il keniota Divock Origi e lo spagnolo Kevin Mirallas. C’è il kosovaro Januszai, nato a Bruxelles, sulle cui origini si potrebbe scrivere un piccolo trattato di storia dei flussi migratori in Europa negli ultimi vent’anni, e che potrebbe giocare con le maglie di Albania, Serbia oTurchia. E c’è naturalmente Radja Nainggolan, madre fiamminga e padre indonesiano di etnia Batak. A proposito del centrocampista della Roma c’è un aneddoto di queste ore secondo cui il giocatore, ospite di un albergo di Anversa, sarebbe stato scambiato per un possibile terrorista, generando un falso allarme. Una vicenda che può far sorridere, ma che in realtà aiuta anche a capire quanto è difficile mettere oggi assieme i pezzi dell’identità belga, se pure i giocatori più celebrati della nazionale di calcio-esiste qualcosa di più iconico-vengono presi per stranieri.

Il Belgio oggi è una sorta di laboratorio avanzato di dinamiche destinate a manifestarsi nel medio periodo anche in altre zone d’Europa. La crisi dell’industria siderurgica negli Anni Ottanta aveva determinato la crescita zero della popolazione. I flussi migratori e l’incremento del tasso di natalità fanno ora sì che la popolazione torni a crescere, all’interno di un territorio che è poco più esteso della Lombardia e che per densità è il terzo di Europa dopo Malta e Paesi Bassi. L’altro elemento è il tasso di urbanizzazione, che negli Anni Novanta sfiorava il 97%, che è una quota da Far East e non da Europa, e che oggi è calato ma non in maniera così significativa. L’associazione di questi tre elementi fa oggi del Plat Paix, considerato sempre alla stregua di una sonnacchiosa appendice di Francia popolata da fans di Tin Tin, un ecosistema demografico dagli equilibri molto delicati, dove un cittadino su cinque è di origine straniera e il 10,9% lo è per passaporto. Secondo i numeri dell’Università di Lovanio, solo la comunità marocchina (inclusi i cittadini belgi) include circa 430mila persone, e ha abbondantemente superato per dimensioni quella italiana, “implosa” sino a ridursi a 250mila persone, mentre quella turca ne vanta 170mila. Oggi gli stranieri a Bruxelles sono il 33%, così come un terzo della popolazione è musulmana. Nel 2020 la quota supererà il 50%, e già dal 2001 il nome dato più frequentemente ai neonati è Mohammed.

Le Soir, il quotidiano belga di lingua francese con tiratura più alta e una comunità di lettori fortemente radicata nell’area di Bruxelles, ha pubblicato nel 2013 un dossier secondo cui nella capitale il 75% della popolazione discenderebbe da emigrati: un indice tre volte più alto di quello della Vallonia e cinque delle Fiandre. La proiezione al 2023 è di un ulteriore innalzamento della quota, sino all’83%.

Oggi Molenbeek è nell’occhio del ciclone e tutta l’attenzione è sulla quota di foreign fighters presenti tra Maritime, Etangs Noire e Ribacourt (le fermate delle linee 1 e 5 del metrò di Bruxelles con cui vengono identificate le zone più “calde” per presenza di esponenti dell’Islam radicale), è difficile indovinare se, a fronte del consistente investimento in politiche di coesione sociale fatto dallo Stato belga, un giorno si potrà arrivare a un modello di integrazione riuscito come quello di Matongé, il quartiere africano di Bruxelles che oggi è guardato più come una declinazione variopinta e anarcoide del folclore locale che una criticità, anche se nel 2011 l’esito delle elezioni a Kinsasha ha procurato un vero e proprio riot a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla sede della Comunità Europea. La questione investe anche altri centri-satellite della capitale, come Vilvoorde, considerato l’avamposto nelle Fiandre della jihad. Qui la composizione della popolazione è cambiata con una velocità impressionante, anche a seguito della chiusura nel 1997 dello stabilimento della Renault che costituiva la maggiore risorsa occupazionale di quest’area del Brabante.

Con una maggioranza schiacciante (80%) di belgi di lingua fiamminga, Vilvoorde è storicamente al centro di un curioso fenomeno migratorio microlocale, che alla fine della Seconda Guerra Mondiale ha visto arrivare qui gli abitanti di una zona molto circoscritta dell’Andalusia, tra Pueblonuevo e Penarroya. Un decimo della popolazione è tuttora di origine spagnola. La presenza iberica ha favorito la crescita di una comunità marocchina e portoghese. Più recentemente sono arrivati turchi e macedoni. Oggi si stima che un terzo dei foreign fighters partiti dal Belgio per la Siria viene da questo sobborgo di 41mila abitanti. Quattro di loro sono morti nei combattimenti. Qui è molto forte un gruppo radicale denominato Sharia4Belgium, che raccoglie soprattutto l’adesione di ragazzi di origine turca.

La cosa più difficile è proprio tenere assieme queste due immagini, quella dei “diavoli rossi”, che sulla multietnicità sembra costruire la consistenza inedita del Belgio, e la fragilità di comunità come Molenbeeck o Vilvoorde. Debolezza o forza? É una domanda aperta che richiede risposte nuove, dal cuore dell’Europa alla sua periferia, e oltre.

La prima volta che ho sentito parlare di Molenbeeck è legata a un vecchio idolo degli appassionati di calcio, che nella squadra della cittadina è andato a chiudere la carriera: Erwin Vandenbergh, il biondino ex scarpa d’oro centravanti di Anderlecht e Lilla. Nella partita inaugurale del Mondiale 1982, Vandenbergh segnò il goal che consentì al Belgio di battere 1-0 l’Argentina di Maradona, campione del mondo uscente. Una cosa è certa: l’istantanea di quel goal, con Ludo Coeck, Pfaff, Gerets, Vercauteren e Ceulemans, campioni “local local” di quella squadra, che abbracciano la punta, è l’immagine di un’Europa che non esiste più, consegnata per sempre alla memoria. Inservibile per capire il nostro tempo e quello che verrà.

Diego Maradona plays against Belgium in 1982

Diego Armando Maradona contro i calciatori belgi ai mondiali di Spagna del 1982

TAG: Belgio, immigrazione, lukaku, Molenbeek, nazionale belga, società multiculturale
CAT: immigrazione

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