Più che post-capitalismo, questo è iper-liberismo

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28 Settembre 2015

Il libro Post-capitalism di Paul Mason uscirà in Italia solo nel 2016, ma il lungo estratto pubblicato sul Guardian (che potete trovare qui) – comparso come storia di copertina anche su Internazionale – basta per tenere in vita uno dei dibattiti più importanti di questi anni: come cambia il lavoro, nel suo complesso, in una società sempre più legata alla tecnologia, all’informazione, alla comunicazione.

In sintesi estrema, quanto scrive Mason si basa su tre pilastri: “1- Le tecnologie informatiche hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario (…); 2- L’informazione sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto – i mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante(…); 3- Stiamo assistendo a una crescita spontanea della produzione condivisa: nascono beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale”.

Secondo Mason, il risultato di questi tre fattori è che “la prossima ondata di automazione, attualmente ferma perché le nostre strutture non sono in grado di sopportarne le conseguenze, farà diminuire enormemente la quantità di lavoro necessaria non solo per la sussistenza, ma anche per garantire una vita dignitosa a tutti”.

E speriamo! Paul Mason fa però riferimento a uno scenario ancora là da venire, una visione auspicabile per il futuro (remoto?) che però si scontra con le tendenze per il futuro prossimo che possiamo osservare oggi. È il caso della sempre citata sharing economy, sotto il cui ombrello finiscono cose che di “sharing” hanno ben poco: AirBnb è davvero sharing economy o è semplicemente un servizio di noleggio di stanze in cui di “condivisione” c’è ben poco?

Non è che stiamo confondendo la sharing economy con la rental economy, come scrive Tiziano Bonini su Doppiozero citando Giorgos Kallis? “L’economia redditizia di Airbnb non è la stessa cosa della reale economia della condivisione rappresentata dai giardini urbani collettivi, banche del tempo, couchsurfing, dove gli utenti condividono realmente le loro risorse a fini di mutuo aiuto e soccorso, senza intermediazione monetaria e senza profitti. La rental economy è l’inevitabile versione mercificata della sharing economy. Affittare non è condividere: dovrebbe essere regolato e tassato”.

E cosa c’è di sharing economy in Uber, un servizio di noleggio auto con conducente i cui lavoratori sono sottoposti a una vigilanza strettissima senza nemmeno essere assunti? Hanno una gestione libera del loro tempo, ma lo pagano a carissimo prezzo. Una situazione in cui si stanno venendo a trovare, d’altra parte, tutti i lavoratori freelance, per le ragioni più diverse.

Personalmente, da freelance, non vorrei mai tornare al lavoro dipendente. Sono molto contento di aver barattato una certa sicurezza con una maggiore libertà (tanto più che oggi, di sicurezza, ce n’è pochissima, quindi tanto vale). E anche se sono diventato freelance giocoforza, dopo il fallimento del service editoriale per cui lavoravo, sono felice che le cose siano andate così.

Ma il fatto che in tanti siano soddisfatti di una posizione lavorativa che regala soddisfazioni personali e gestione libera del tempo (in cambio di minore sicurezza economica) non significa che sia qualcosa di positivo in sé.

E questo perché per tanti “millennials” diventare lavoratori autonomi non è stata una scelta, bensì un obbligo (se nessuno ti offre un lavoro, quel lavoro lo devi inventare); ma soprattutto perché la nuova tendenza che sempre più si osserva è quella del lavoro freelance a cottimo: del lavoro pagato in base ai risultati, quantificabili al millimetro, che si ottengono.

Una tendenza di cui ho scritto qui e che riguarda lavoratori freelance che accedono a piattaforme internet (YouTube, Blasting News, AdFly) in cui vengono pagati solo in base alla quantità di “click” o altro che riescono a generare; sotto una certa soglia, non prendono nulla.

Una meritocrazia totale (non ci sono più barriere d’accesso, tutti possono giocarsi la loro chance), ma spietata. Soprattutto, un meccanismo che ribalta la situazione: il rischio d’impresa è scaricato sulle spalle del lavoratore, che se ha “successo” guadagna, altrimenti non vede un euro; mentre l’imprenditore che ha costruito la piattaforma può usufruire di una flessibilità nelle uscite incredibile (meno il lavoratore genera click, meno pubblicità entra, meno guadagni ho, meno pago il lavoratore) e soprattutto – fatta eccezione per i costi fissi – direttamente proporzionale all’andamento della propria impresa.

Che è un po’ come se Marchionne pagasse gli operai Fca in maniera direttamente proporzionale a quante 500 e Jeep Renegade riesce a vendere. Sotto una certa soglia, nessun operaio viene pagato, non importa quante ore abbia lavorato. Sarebbe questo il post-capitalismo? Ricorda davvero, molto di più, il capitalismo spietato e deregolamentato che ha preceduto l’avvento dei sindacati e della socialdemocrazia.

L’unica tendenza contemporanea che fa davvero pensare al post-capitalismo è che alla soddisfazione nel possedere oggetti si sta sostituendo la soddisfazione nel possedere tempo. Come dice Sara Horovitz, “i millennials tendono a dare maggiore valore alle esperienze piuttosto che alle cose”.

D’altra parte, quella che sta crescendo è una generazione sempre più abituata al lavoro indipendente. I freelance sono un esercito in continua ascesa, ma viste le condizioni economiche a cui sono sottoposti (parliamo della fascia bassa, non dei grandi professionisti) è normale che diano valore alle esperienze, alle gratificazioni che un lavoro “free” (a volte anche nel senso di gratis) può offrire, e diano meno valore a ciò che non si possiede: il potere di comprare quello che si vuole.

Non voglio essere un disfattista, sono favorevole a modalità che riducano la schiavitù dell’ufficio, che abbattano le barriere d’accesso e che rendano possibile una vera meritocrazia, ma bisogna ricordare che tutto questo avviene a un prezzo molto alto. E va anche ricordato come il trattamento economico delle giovani partite Iva sia completamente diverso dalla “partita Iva” dell’immaginario collettivo. Parliamo di lavoratori che prendono stipendi in linea con quelli dei lavoratori dipendenti, ma senza tredicesima, senza ferie pagate, senza malattie, senza tutele di alcun tipo.

Il punto è che se la sharing economy è, nei suoi esempi glorificati, costituita da aziende che di sharing vero hanno ben poco; se l’essere freelance diventa un obbligo, più che una scelta; se il rischio d’impresa si scarica sulle spalle del lavoratore, forse prima di sognare un postcapitalismo che ancora non si vede, dovremmo concentrarci bene per capire che cosa sta succedendo nell’iperliberismo in cui siamo immersi oggi.

Secondo Paul Mason, il postcapitalismo “farà diminuire enormemente la quantità di lavoro necessaria non solo per la sussistenza, ma anche per garantire una vita dignitosa a tutti”; per il momento vedo eserciti di freelance che lavorano 14 ore al giorno – inventandosi di tutto – per mettere insieme uno stipendio.

@signorelli82

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CAT: Innovazione, Lavoro autonomo

2 Commenti

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  1. alanianross 9 anni fa

    «Ma il fatto che in tanti siano soddisfatti di una posizione lavorativa che regala soddisfazioni personali e gestione libera del tempo (in cambio di minore sicurezza economica) non significa che sia qualcosa di positivo in sé.»

    Di “positivo in sé” non c’è nulla. Persino l’acqua, la preziosa ed insostituibile H2O, se bevuta in quantità eccessive fa male.

    Quindi, la prova di questo “budino” andrebbe fatta dopo averne abbondantemente mangiato: ossia – fuor di metafora – dopo aver lasciato che questo nuovo “regime” (del sistema economico), o “modello di sviluppo” (come lo chiamerebbe qualcuno), abbia cominciato a produrre qualche frutto sufficientemente maturo da poter essere assaggiato e giudicato per quel che è.

    Altrimenti, rischiamo di continuare a parlare solo di “sentiti dire”, di “si dice / si ritiene / corre voce”, il che non porta grande sostanza alla discussione.

    Un esempio: la “vexatissima quaestio” di Uber. Tu dici: «cosa c’è di sharing economy in Uber, un servizio di noleggio auto con conducente i cui lavoratori sono sottoposti a una vigilanza strettissima senza nemmeno essere assunti? Hanno una gestione libera del loro tempo, ma lo pagano a carissimo prezzo.»

    Io – che, pur non avendolo ancora mai provato, ritengo Uber un’idea GENIALE, perché sarebbe l’unico modo di dare una SCOSSA EPOCALE al sistema del trasporto pubblico urbano odierno che, così com’è andato “sedimentandosi” nel corso degli ultimi cinquant’anni, FA SCHIFO – ti obietto:

    1. vigilanza strettissima? Per forza, a meno di non voler davvero cadere nel caos totale, che non avrebbe niente a che fare con qualsiasi possibile liberalizzazione. L’alternativa sarebbe lasciare ai conducenti una TOTALE libertà di TUTTO, senza esercitare il minimo controllo: col che, si andrebbe a finire dritti dritti dalle parti dei tassinari e degli autisti di micro-bus abusivi partenopei, che fanno quello che vogliono e GUAI a capitargli fra le grinfie se non si è più che sgamati. Se un servizio del genere di Uber vuole davvero provare a “partire”, qualcuno dovrà ben esercitare un qualche tipo di controllo. Ora lo esercita l’azienda, essendo il settore pubblico carente anche solo delle “categorie analitiche” con cui poter “inquadrare” il fenomeno: il giorno in cui quest’ultimo avrà imparato come rapportarcisi (per esempio, commissionando all’azienda la fornitura di un certo tipo di servizio “à la Uber”, per una certa durata, con determinate condizioni di esecuzione e fornitura: e QUINDI, poi, ESIGENDO un certo tipo di qualità complessiva nella fornitura), probabilmente l’onere del controllo passerà ad altri soggetti.

    2. «Hanno una gestione libera del loro tempo, ma lo pagano a carissimo prezzo.» E come facciamo a sapere che, IN GENERALE, il “prezzo” che l’azienda chiede loro di “pagare” è davvero “carissimo”? Gliel’abbiamo chiesto? Ci sono studi in materia? Analisi statistiche di GROSSE moli di dati riguardanti il rapporto Uber-conducenti, lo stato delle relazioni aziendali, le eventuali proteste generalizzate dei conducenti per trattamento inumano / antietico / “ingiusto” e/o “iniquo”, o il numero di cause intentate all’azienda per gli stessi motivi?

    No. Non c’è nulla del genere. Ci sono alcuni servizi giornalistici, sono stati interpellati ALCUNI guidatori (i quali, in parte hanno “vociato” contro l’azienda – con la quale, tuttavia, NESSUNO aveva imposto loro di andarsi a legare mani e piedi – e in parte, però, hanno detto «FINALMENTE MI SENTO LIBERO! MAI E POI MAI TORNEREI INDIETRO!»). Ma non c’è, appunto, alcuno studio SISTEMATICO di come stiano andano le cose laddove Uber ha avuto la possibiltà di “attecchire”, senza che qualche preesistente “corporazione” le mettesse – o le facesse mettere dallo Stato – i bastoni fra le ruote, letteralmente.

    Quindi, se le cose stanno così, di che parliamo?

    E inoltre: nel settore del trasporto urbano, qual è allora la situazione che ci va bene, quella attuale, con i tassì fermi più o meno in pianta stabile nei loro parcheggi ad aspettare clienti, e magari 50 € per fare venti chilometri? (sono SECOLI che non prendo un tassì a Milano, ma vedo – dalle tariffe ufficiali – che non siamo molto lontani da questi valori)

    Uber è un ESPERIMENTO. Potrebbe funzionare, oppure no: ma se – ora per una ragione, ora per un’altra – non lo si lascia partire DA NESSUNA PARTE, non sapremo MAI se avrebbe potuto essere un buon modello (benché, magari, migliorabile), o se era solo una truffa.

    Mutatis mutandis, lo stesso discorso si applica ad OGNUNO degli “esperimenti” di cui sembrerebbe essere costituito questo nuovo “modello”. Essendo quasi tutti nati da un’idea assai specifica, e spesso partiti a livello locale (i.e.: relativamente ad una ben precisa “comunità”, magari virtuale), senza alcuna “macro-progettazione illuminata” dall’alto, potrebbe darsi che su diversi temi (la mobilità, l’ambiente, l’alimentazione, l’energia) siano più “astuti” di tutti i Mega-Progetti visti (fallire) in passato. Concepiti a tavolino nel chiuso di un qualche centro studi, costati magari MILIARDI (di euro o dollari PUBBLICI), attuati pensando di aver calcolato OGNI POSSIBILE imprevisto – e TUTTE le possibili vie d’uscita conseguenti – e poi magari schiantatisi contro il primo imprevisto DAVVERO IMPREVEDIBILE, che non era stato preso in considerazione all’epoca del concepimento del progetto. Gli esempi si sprecano: mega-aeroporti mai entrati a regime, mega-porti mai diventati quegli “hub” globali che si prevedeva sarebbero diventati, mega-strade-&-autostrade realizzate sbancando intere cordigliere montuose, o abbattendo centinaia di ettari di foreste, e meno affollate di mulattiere, per mancanza OGGETTIVA del volume di autoveicoli che si pensava avrebbero attirato.

    Potrebbe darsi: oppure no. Magari, invece, si riveleranno anch’essi altrettanti buchi nell’acqua che, alla resa dei conti, non ci avranno fatto avanzare di un millimetro.

    Ma COME POTREMO MAI SAPERLO, se non proviamo a “lasciarli accadere”?

    Peace :-)

    A.i.R.

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    1. alanianross 9 anni fa

      P.S.: scusa per la schifosissima impaginazione ma, mancando ogni indicazione in merito, non sono ancora riuscito a capire se l’iframe accetta i tag HTML.

      A.I.R.

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