I dolori di un giovane studente di lingua e letteratura russa

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4 Agosto 2016

 

L’attività intellettuale – secondo una formula che piaceva tanto a Gramsci presa da Goethe – “für ewig”, ossia “per sempre”, disinteressata, libera, è tuttavia “fatica alla carne” direbbe il Qoèlet della Bibbia, una volta chiamato  Ecclesiaste (12, 12). Si tratta ogni giorno di lavorare di vanga, spostare cumuli di terra, sistemare muretti, costruire argini ecc. Insomma fatica e lavoro puri. Viene perciò da me  per un consulto un giovane studente di lingue molto affaticato da un testo. Egli sa che dopo i francesi amo molto, da lettore puro non professionale,  i russi.  Gli è stato dato da leggere la monografia  Dostoevskij di Michail Bachtin (PBE, Einaudi), la massima autorità critica sullo scrittore russo.  Il giovane ha lo sguardo di chi si è perso in un labirinto mostrandomi un brano del testo.

Comprendo subito il suo stato. Nei miei momenti migliori di lettore consapevole, di colui ossia che si dispone a “scassinare” i testi con l’aiuto di ottimi grimaldelli critici (non ho altra preoccupazione che questa, non essendo insegnante non devo “spiegare” niente a nessuno infatti tranne che a me, e prendermi in giro non mi piace) ho letto di Bachtin Estetica e romanzo e l’ho trovato straordinariamente criptico pur avendolo compreso in essenza, meno sicuramente del Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin o della Scienza della logica di Hegel che mi ammollarono all’università senza alcun genere di conforto critico: io e Benjamin, io e Hegel, un corpo a corpo che mi lasciò tramortito. Tuttora per me quei testi restano inaccessibili,  e ogni tanto li riprendo per farmele suonare. E infatti, ritorno al tappeto quasi sempre. Dovrò procurarmi qualcuno che li abbia capiti e che abbia la bontà di spiegarmeli passo passo. Non l’ho ancora trovato.

Naturalmente la “colpa” di non aver compreso quei testi è stata senz’altro della mia insipienza e scioperataggine giovanile  visto che in quegli anni universitari  m’ero perso dietro  i più “gastronomici”  Stendhal e Balzac, e perciò, vedendo questo giovane m’è venuto sadicamente da commentare: «T’è piaciuta la playstation e i romanzi fantasy a go-go?».  Ma è stato un pensiero subito ritirato. La “colpa” è complessa, è “polifonica” direbbe per prima Bachtin. Non ultima è in capo a chi ti ammolla Bachtin senza darti alcun sussidio esplicativo, foss’anche un bignami. Ma anche in qualche modo dell’editoria come spiegherò.

Il passo incriminato di questo immenso e tutto sommato “godurioso” libro di Bachtin  (tralascio di dirvi che egli sta contestando in questo brano un altro critico, Grossman) è questo:

« i romanzi dostoevksiani dell’ultimo periodo sono dei “misteri”. Il “mistero” è effettivamente a più piani e, in una certa misura polifonico. Ma la pluralità di piani è la polifonicità del “mistero” sono meramente formali e la stessa costruzione del “mistero” non permette alla molteplicità delle coscienze coi loro propri mondi di dispiegarsi in modo consistente. Qui fin dal principio tutto è predeterminato, chiuso e compiuto, anche se, in verità, è compiuto non su un solo piano».

Chiaro no? Direi per nulla. Qui è un enigma avvolto in un mistero, come secondo Churchill è la donna. Procediamo con cautela ma anche con un pizzico di curiosità socratica. “Che cos’è mistero”? Ti estin? Che cos’è?  Cos’è questo “mistero” costantemente messo tra virgolette? Qualcosa come I misteri di Parigi di Eugène Sue?  I misteri di Kazzenger? Cioè quel genere di informazione televisiva ove aleggia una permanente aria di enigma per gonzi:  il meraviglioso superfluo con forti dosi di complottismo, un po’ di catastrofe, un po’ di archeologia, un po’ di Extreme Engineering, un po’ di disastri aerei…

No, se avete un minimo di educazione cattolica saprete certamente che esiste un genere di rappresentazione teatrale religiosa detta “mistero”.  C’è una novella di Verga (in Novelle rusticane) intitolata giustappunto Il mistero dove è in scena una rappresentazione religiosa. La tentazione di sant’Antonio di Flaubert più che un romanzo è propriamente un “mystère”. Il “mistero” è infatti una rappresentazione sacra di origine medievale. Infatti quando Dario Fo mette in scena il suo Mistero buffo, intende sbeffeggiare con il suo grammelot proprio il “mistero” medievale, la rappresentazione sacra, parateatrale.

Nel suo saggio critico  Bachtin martella il lettore con la sua tesi che i romanzi di Dostoevskij sono polifonici. Ora anche il “Mistero” è polifonico (ci sono Cristo, Giuseppe e Maria che parlano e recano il proprio punto di vista), ma, dice Bachtin, questa polifonicità è meramente formale, è statica, non è dialettica, e soprattutto non può esprimere “punti di vista” non dottrinari, «non permette – dice il critico con il suo linguaggio colto – alla molteplicità delle coscienze coi loro propri mondi di dispiegarsi in modo consistente». Invece i romanzi di Dostoevskij sono polifonici perché i personaggi-idea (Stavroghin, Verchovenskij, Trofimovic, Aliosha, Ivan) sono totalmente liberi  di esprimere il loro punto di vista, e non vengono ridotti alla misura monologica dell’autore, ossia non sono “portavoce” dell’autore-Dostoevskij il quale li lascia con la “corda lunga”,  fa dire loro ciò che essi pensano, pensieri  con  cui l’autore non necessariamente concorda, ecc. ecc.

Proseguendo nella lettura del libro di Bachtin si comprenderà, superando non pochi scogli, cosa ha in mente questo benedetto (in tutti i sensi) critico con questo “mistero”. Ciò che ho spiegato al giovane.

Ora, mi chiedo. Cosa costava al traduttore/editore mettere una noticina a piè pagina tra parentesi quadra [NdT] spiegando la parolina “mistero” al povero studente di lingua e letteratura russa ? Boh, mistero.

TAG: Dario Fo, Dostoevskij, Michail Bachtin, Misteri, Mistero Buffo
CAT: Letteratura

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