Mario Perniola e Robert Musil – “Del sentire cattolico”

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25 Agosto 2016

Lettura laterale (libri che ti capitano per caso mentre stai leggendo altro): di Mario Perniola Del sentire cattolico, Il Mulino, 2001.

L’essenziale del cattolicesimo non è – nella prospettiva di questo originale saggio- qualche specifico contenuto dottrinale, ma una forma di sentire, un metodo basato sull’esperienza di una “partecipazione impartecipe”, che da un lato consente l’acquisizione dell’equilibrio individuale, dall’altro permette di agire efficacemente nel mondo. Tale metodo ha trovato la sua formulazione più chiara nei “Ricordi” di Francesco Guicciardini e negli “Esercizi spirituali” di Ignazio di Loyola. Vissuti in un’età precedente alla definitiva rottura col protestantesimo, essi nutrivano ancora un profondo sentimento dell’universalità del cristianesimo e della sua capacità di elaborare dispositivi culturali suscettibili di applicazione generale. Purtroppo questa esperienza distaccata di se stessi e del mondo, che costituisce il nucleo del sentire cattolico, è stata repressa nella prima metà dell’Ottocento dal dogmatismo ideologico in cui la chiesa si è chiusa per far fronte ai suoi nemici. A partire da quel momento sono stati perciò soprattutto gli scrittori e gli artisti per lo più non legati ad alcuna confessione (come Robert Musil e Clarice Lispector) a interpretare e a sviluppare in modo autonomo il sentire cattolico” (Risguardo di copertina).

Aggiungo io, a lettura ultimata, due impressioni/riflessioni. La prima: Mario Perniola loda implicitamente il cattolicesimo; tale confessione religiosa gli appare molto conforme al sentire italiano: non è retta da principi forti escatologici (gli Ultimi giorni, i Novissimi e il dies irae giocano un forte ruolo nel protestantesimo non nel cattolicesimo); distingue rito da mito, fatto che secondo Perniola consente di “sentire dall’esterno” e non dall’interno (come il protestantesimo) e infine dà risalto alle opere (soprattutto quelle di misericordia). Queste si sono mirabilmente adattate al tessuto italiano, ai suoi bisogni e alle sue necessità storiche. La seconda: ad eccezione del carattere popolare delle opere di misericordia, questo cattolicesimo di Mario Perniola, sembra un “sentire” aristocratico, un po’ come lo stoicismo nell’Antichità (a cui Perniola rimanda espressamente), una religione per intellettuali e classi dirigenti insomma. Nei fatti il cristianesimo delle origini raggiunse sia i dotti che gli indotti con qualche ragione segreta che occorre indagare meglio. La mia ipotesi è  che si pose, già prima della elaborazione teologica della patristica greca e latina, come una religione popolare, antiintellettualistica, con precetti e “comandi” molto semplici che definirei di tipo “multilevel”, rimandando per esempio alla “santità” un ideale morale alto, che pur c’è, e concedendo in basso forme di credulità che confinano con la superstizione, non esitando a tale scopo a impadronirsi  di tutte le feste latine, dei riti religiosi misterici greci, della tradizione dei pellegrinaggi ai santuari e anche dei santi taumaturghi, tutti aspetti della cosiddetta “pietà popolare” che preesistevano nella religione sia greca che latina, e finanche egizia.
Elaine Pagels ci può essere di aiuto. Nel suo I vangeli gnostici, (Mondadori, Milano 1988), ci dà una spiegazione della semplificazione del cattolicesimo delle origini, rispetto allo gnosticismo, per esempio:

«Sul finire del I secolo i cristiani ortodossi avevano iniziato a stabilire criteri obiettivi per diventare membri della chiesa. Chiunque professasse il credo, accettasse il rito del battesimo, prendesse parte al culto e obbedisse al clero, veniva accettato come fratello cristiano. Allo scopo di unificare le varie chiese sparse per il mondo in un unico sistema, i vescovi eliminarono i criteri qualitativi d’appartenenza alla chiesa. Valutare ogni candidato sulla base della maturità spirituale, della penetrazione intuitiva, e della personale santità, come facevano gli gnostici, avrebbe richiesto una gestione più complessa. Inoltre, avrebbe teso a escludere molti che avevano bisogno di quello che la chiesa poteva dare. Per diventare veramente cattolica – universale -la chiesa respingeva ogni forma di elitismo, sforzandosi di comprendere nel suo abbraccio più persone possibile. Nel corso di questo processo, i suoi capi crearono una struttura chiara e semplice fatta di dottrina, rito e struttura politica, che si è rivelata un sistema organizzativo di straordinaria efficacia» pagg 167-168.

Se la chiesa delle origini si fosse comportata come gli gnostici che chiedevano livelli di compartecipazione spirituale molto alti sarebbe scomparsa come nel nostro dopoguerra è scomparso il Partito d’Azione, che aveva ragione a tutti i livelli, ma non parlava alle masse. La separazione tra rito e mito sembra consustanziale al cattolicesimo, e assicurerebbe  a tale confessione un “sentire” distaccato, una “partecipazione impartecipe” da parte delle élite intellettuali che aderiscono al rito ma non al mito, dall’esterno, mentre (io aggiungerei sulla scia della Pagels) per quanto riguarda le masse: date loro un credo, un battesimo (segno distintivo), un culto e un prete e il gioco è fatto.

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Di seguito allego alcune pagine molto significative di questo approccio di Mario Perniola alle prese con L’uomo senza qualità di Musil. È una lettura originale, profonda eppure scritta con una lingua certamente colta e arricciata, ma comprensibile ai più. Dico ciò perché prima di leggere Perniola ero appena uscito da un naufragio intellettuale, ossia la lettura del medesimo romanzo di Musil da parte di Massimo Cacciari (in “Il romanzo” V. Lezioni, a cura di F. Moretti, Einaudi 2003) (potete sentirla qui se ne avete davvero voglia) che ho abbandonato dopo le prime cento righe, essendomi perso nella profondità senza fondo del pensiero/ interpretazione dell’inclito filosofo veneziano che scrive come se fosse il Paracleto. Certo la colpa è tutta della mia insipienza; ma talora, sotto la spinta di una risentita ripicca contro questo filosofo italiano più oscuro di Eraclito e che appare sempre più spesso in tivù come uno stizzoso muppet alle prese con buffe baruffe chiozzotte con tutti, penso di lui quanto Popper diceva di Hegel: che era disonesto, e che, a differenza di Schopenhauer, pensatore onesto, il quale fece tutto il possibile per farsi capire, non voleva essere capito; voleva impressionare, confondere i suoi lettori. ( È l’amico Ernest Gombrich che riporta questo giudizio di Popper su Hegel, vedi La società aperta e i suoi nemici, ed. ebook). Di seguito il difficile ma limpido Perniola.

Che nel grande romanzo di Musil L’uomo senza qualità si trovi la manifestazione di un sentire cattolico, può sembrare bizzarro; infatti esso pare a prima vista piuttosto esprimere una specie di anarchismo mistico ostile a ogni istituzione religiosa. Tuttavia già il titolo Der Mann ohne Eigenscbaften è assai problematico: va infatti scartata la versione corrente che traduce Eigenschaft con «qualità», come se il romanzo si reggesse sulla contrapposizione tra l’avere qualità (cioè caratteristiche degne di apprezzamento) e il non averle, oppure – ancora peggio – tra qualità e quantità. In effetti Eigenschaft è parola che appartiene alla tradizione mistica” e significa in quel contesto piuttosto «proprietà» che «qualità»: vivere senza Eigenschaft vuol dire rinunciare alla propria volontà e ai propri beni per intraprendere una via di totale adeguazione alla volontà di Dio. In tal senso l’uomo ohne Eigenschaften sarebbe l’essere umano che conduce un processo di autospossessamento e autospoliazione. Tuttavia, come ho mostrato nel caso di Ignazio di Loyola, [Perniola cita altri esempi di “sentire cattolico”: Guicciardini, Ignazio di Loyola, Clarice Linspector, ndr], il sentire cattolico è connesso a una sensibilità che affonda le sue radici più nella sospensione che nell’ autoannullamento, più nello stoicismo che nella teologia negativa medioevale. E certamente l’estrema attenzione che Musil nutre nei confronti del mondo, delle sue manifestazioni e continue trasformazioni, lo pone più vicino a Ignazio che al misticismo. Sono perciò incline a pensare che una traduzione più fedele del titolo potrebbe suonare «L’uomo senza caratteri propri», dove l’accento andrebbe posto più sull’aggettivo che sul sostantivo. Da tale traduzione infatti emerge un significato religioso specifico che collega Musil al cattolicesimo in opposizione al protestantesimo; quest’ultimo infatti ha sottolineato la personalità, la singolarità e la proprietà del Beruf, della chiamata, della vocazione, che colloca l’individuo in una determinata professione e in un determinato status sociale attribuendo la dimensione dell’interiorità e della soggettività alla gestione della sua condizione”. In altre parole, il Beruf nell’etica protestante non è semplicemente una parte da recitare nel teatro del mondo (come secondo la mentalità stoica e quella cattolica), ma qualcosa che appartiene intimamente al singolo e che investe la coscienza morale nella sua costituzione ontologica, nel suo essere più profondo. Ora il libro di Musil può essere considerato, a cominciare dal titolo, come il rifiuto della prospettiva protestante e in particolare dell’ enfasi che essa pone sull’autenticità, sulla proprietà, sull’inalienabilità dell’identità soggettiva e delle sue manifestazioni mondane. Ma ciò non implica affatto una ricaduta nella mistica medioevale dello spossessamento e dell’ auto annullamento: al di là del misticismo antico-medioevale e del soggettivismo moderno (al cui sviluppo il protestantesimo ha dato un contributo fondamentale) è nata fin dall’antichità (con lo stoicismo) e si è tramandata attraverso due millenni (con il cattolicesimo) una terza strada che è quella della partecipazione impartecipe, del sentire dal di fuori, della cosa che sente, del sex appeal dell’inorganico, del rito senza mito, della ripetizione differente.
Ora Robert Musil rappresenta, a mio avviso, una pietra miliare nello sviluppo di questa sensibilità anti-soggettiva, la quale si muove in direzione opposta all’ideologismo e al moralismo. L’uomo privo di determinazioni proprie sta in un rapporto di «passività attiva» con se stesso e con le cose. Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil, sente in modo impersonale come se non fosse veramente lui a sentire: «il suo contegno è insieme appassionato e impassibile». Ciò implica un completo distacco rispetto alla «vita che morde I’esca»!”; certo egli possiede certe caratteristiche, ma queste non gli appartengono: «quando è in collera qualcosa in lui ride. Quando è triste, si accinge a qualche impresa». Siamo lontani mille miglia dalla mansuetudine intesa come ideale estetico: «Se qualcuno vuol chiamare oggi fratelli gli uccellini, come faceva san Francesco [. .. ], non potrà limitarsi al lato piacevole della cosa, ma dovrà anche essere pronto a gettarsi nella stufa, a scaricarsi a terra attraverso l’asta del tram e a tuffarsi nelle fogne passando da un lavandino».
Ma non meno estranea a Musil è l’idea di un’energia numinosa che irrompe nel processo storico rivelando il senso delle vicende umane: «il valore di un’ azione o di una qualità, anzi perfino la loro natura ed essenza gli parevano dipendere dalle circostanze in cui erano calate, dagli scopi cui servivano, in una parola dall’insieme mutevole cui appartenevano». La dissoluzione del sistema antropocentrico tocca infine anche l’Io: «un uomo senza qualità è fatto di qualità senza uomo». Musil compie così quel salto dall’umano al «postumano», che era già implicito in Ignazio.
L’ingresso in questa dimensione impersonale implica l’acquisizione di un senso della possibilità opposto al senso della realtà, cui sono legate le persone dotate di un’identità, ossia di proprietà e di caratteristiche univoche. La terra è gravida di possibilità, ma occorre qualcuno che le risvegli. L’accadere è un compito, un’invenzione, un esperimento: ma il passaggio dal personale all’impersonale richiede il raggiungimento di uno stato di indifferenza. Tuttavia la prospettiva delineata da Musil non è affatto utopistica: i veri «realisti» non sono coloro che restano attaccati al senso della realtà, ma coloro che hanno il senso della possibilità: infatti non è solo Ulrich a essere privo di caratteri propri, ma tale è diventato (e forse è sempre stato) il mondo! Le esperienze si sono rese indipendenti da colui che le vive: «sembra quasi che l’uomo non possa più avere alcuna esperienza privata e il gradevole peso della responsabilità personale debba stemperarsi in un repertorio di possibili significati». Chi si ostina a nutrire sentimenti soggettivi e privati può darsi che sia molto felice, ma «normalmente [ … ] appare assurdo agli altri, anche se non si sa ancora bene perché». La prospettiva di Max Weber, secondo cui esiste un rapporto strettissimo tra il soggettivismo protestante e lo spirito del capitalismo, è dunque completamente rovesciata. Il grande interesse che Musil dedica allo studio del rapporto tra cultura ed economia nel delineare la figura di un altro personaggio del romanzo, Paul Arnheim (il cui modello storico è l’industriale, saggista e uomo politico tedesco Walther Rathenau) mostra l’esistenza di una trama di complesse relazioni tra l’esperienza impersonale e la logica del capitalismo. Tuttavia ciò non conduce mai Musil ad identificare la «passività attiva» dell’uomo senza caratteristiche proprie con la dinamica dell’ economia: non bisogna mai dimenticare che Ulrich «non riusciva mai ad amare senza riserve» le raffigurazioni della vita industriale, «com’è necessario per sentirsi a proprio agio nel mondo»; nei loro confronti provava «un alito di disgusto».
Ancora una volta emerge quindi un tratto caratteristico della sensibilità cattolica, la quale presta al mondo e alla sua differenza un’estrema attenzione, mantenendo però nei confronti di esso un distacco: proprio questa sospensione rappresenta la condizione della sua esperienza. Chi sta immerso totalmente nel flusso delle passioni vitali non è in grado di accedere alla contrada (Gebiet) del mondo. Ma anche chi è troppo contemplativo e spirituale, troppo lontano dalla corporeità e dalle cose, è vittima di illusioni non minori. La decostruzione dell’autenticità condotta da Musil non avviene soltanto nella direzione del funzionalismo materialistico, ma nella stessa misura è diretto contro il misticismo utopistico e disincarnato: «in ogni desiderio che non impegni anche i sensi c’è già un muto cordoglio».
Decisive mi sembrano le considerazioni di alcune pagine del romanzo su due tipi di esseri umani opposti tra loro: quelli «appetitivi», che corrono dietro a quello che trovano e vivono in modo veemente e violento e quelli «contemplativi», che sono timidi e trasognati, vaghi e irresoluti. La vita irruenta dei primi «si lascia alle spalle soltanto il fragore del passaggio»; la vita dei secondi invece è immersa in una silenziosa mestizia. C’è tuttavia un terzo tipo di esseri umani che contiene aspetti dei primi e dei secondi: essi sono attivi, ma non corrono come animali rapaci verso la soddisfazione; sono distaccati dalla nuda effettualità, ma non dalla sensibilità e dalla sensualità mondana. Il grande romanzo di Musil ci mostra come sia possibile vivere all’interno della vita di società, della burocrazia, del commercio, della politica, della diplomazia, della criminalità, della famiglia, dell’industria, della sessualità, del sapere con una specie di sospensione. Se la vita «appetitiva» è destinata alla delusione, la vita «contemplativa» è inconcludente e confusa: solo integrando queste opposte caratteristiche è possibile accedere a un sentire e a un agire impersonale in cui un anonimo «si sente» prende il posto dell’ «io sento».
Infine non è superfluo osservare che il modo di sentire che emerge dal libro di Musil intrattiene rapporti profondi con quella esperienza di ripetizione differente che sta alla base del sentire rituale. Già il titolo della seconda parte del romanzo Seinesgleichen geschieht; cioè «succedono cose dello stesso genere» rimanda alla nozione di eterno ritorno elaborata da Nietzsche. Ma che le cose ritornino, non vuol dire che si ripetano in modo assolutamente identico al passato. La vicenda che costituisce il principale asse portante del romanzo, l’Azione parallela, consiste appunto nei progetti per la celebrazione a Vienna di un anniversario, il settantesimo anno di regno dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe che avrebbe dovuto cadere nello stesso anno del trentesimo anno di regno dell’imperatore di Germania Guglielmo II. Più che di una vera e propria azione si tratta perciò di un’ operazione culturale di ampio respiro, di un grande evento giubilare, che sta in un rapporto di rivalità mimetica con i festeggiamenti previsti a Berlino. Il romanzo ruota intorno ad un progetto che è quasi risibile, e che in ogni caso sta in un rapporto assolutamente sproporzionato rispetto all’importanza dei temi e dei problemi dibattuti dai personaggi: tale disarmonia provoca tuttavia proprio quell’ effetto di decostruzione dell’ autenticità che costituisce l’aspetto essenziale della sensibilità di Musil, e che lo rende uno straordinario interprete del sentire cattolico. A differenza infatti del sentimento protestante, la cui forza risiede nella rivendicazione enfatica di ciò che è autentico e proprio, il sentire cattolico si potrebbe definire – per adoperare . un’espressione di Musil – «un idealismo al ribasso»: cioè una strada indiretta verso il bene che non dà nulla per scontato e pensa di poter volgere a proprio favore anche le cattive disposizioni umane. Tale orientamento è motivato da una completa sfiducia nei confronti dell’ «idealismo al rialzo», tipico dell’ideologia rivoluzionaria, la quale troppo spesso si è rivelata incapace di ottenere i risultati promessi ed anzi ha provocato effetti assolutamente contrari a quelli desiderati. Sotto questo aspetto l’ «idealismo al rialzo» non è altro che ingenuità e assenza di spirito critico: alla base dell’ «idealismo al ribasso» starebbe invece l’esperienza dell’ enantiodromia, cioè di quel movimento, così bene descritto da Nietzsche [in Umano troppo umano], per
il quale i contrari si rincorrono e si capovolgono l’uno nell’altro. Non sarebbe perciò consono al sentire cattolico il mettersi in concorrenza con lo spirito del protestantesimo e della rivoluzione, dando fiato alle trombe dell’autenticità e del moralismo.
Il tema della ripetizione differente sta alla base anche del secondo grande asse portante del romanzo, lungo il quale si svolge la terza parte incompiuta, la vicenda della sorella gemella dimenticata e ritrovata. Essa richiederebbe una lunga e complessa analisi; tuttavia sono incline a pensare che anche in questo caso l’esperienza descritta da Musil non vada verso il misticismo, ma verso una partecipazione impartecipe. Mi sembra cioè che il rapporto tra il protagonista del romanzo, Ulrich, e sua sorella Agathe non sia contrassegnato dalla fusione di due anime in un’unità indifferenziata; esso resta l’esperienza di una ripetizione differente, di una mimesi che non è mai uguaglianza, ma contiene in se stessa una faglia, una frattura che impedisce l’incontro e la compenetrazione delle parti. Anche in tale vicenda Musil perciò procede alla decostruzione di ciò che è proprio ed autentico. La conclusione del capitolo in cui Fratello e sorella si immaginano di essere una coppia di gemelli siamesi e a tal proposito assai indicativa: il sentire suscitato da tale fantasia non è quello di una ritrovata unità: La domanda circa che cosa vuol dire essere davvero cresciuti insieme con un altro essere umano riceve una risposta sorprendente; supponendo che ogni eccitamento psichico dell’ uno viene sentito anche dall’ altro, il risultato e un sentire attraverso un corpo che resta estraneo ed esterno: il processo scatenato dall’eccitamento infatti «si sarebbe prodotto in un corpo che, nell’essenziale, non era il proprio». Mario Perniola, Del sentire cattolico. La forma culturale di una religione universale, Il Mulino, Bologna, 2001. pagg. 144- 150

TAG: Del sentire cattolico, Mario Perniola, massimo cacciari, Robert Musil
CAT: Letteratura

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