Nobel a Dylan, è cambiato il mondo

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17 Ottobre 2016

Che bello! Finalmente il Nobel per la letteratura viene assegnato a Bob Dylan, a un grande artista! E basta con questi poeti noiosi, illeggibili e polverosi! E’ inaccettabile! Bob Dylan non è un poeta, e nemmeno uno scrittore! E’ folle premiarlo con il Nobel! E’ la deriva, l’aberrazione della cultura contemporanea!

Quotidiani e social network in questi giorni sono stati invasi da contrapposizioni e da giudizi simili a questi, formulati da scrittori, da lettori, da esperti di musica. Andando oltre il merito della questione, ovvero se si tratti di un premio giusto oppure no, cosa che richiederebbe riflessioni lunghe e complesse, è difficile negare che l’Accademia svedese in questo caso si sia mostrata al passo con i tempi, certificando un processo in atto da molto nella percezione collettiva della letteratura.

E non penso soltanto al fatto che nell’opinione diffusa le distinzioni tra i generi letterari e artistici siano ormai labili, incerte e confuse. Dietro il Nobel a Dylan, se si vuole, annunciato da anni, da lustri, nei discorsi, nelle mezze frasi, probabilmente nei pensieri fluttuanti e semi-inconsapevoli di molti, c’è che la musica leggera, nelle sue diverse declinazioni, negli ultimi decenni ha acquisito un’autorità culturale sempre più forte. E probabilmente, grazie alla sua capacità di imporsi e di colonizzare radio, televisione e, più di recente, internet, la canzone si è in qualche modo sovrapposta, o almeno in parte confusa, nell’immaginario collettivo di una parte del pubblico potenziale alla letteratura, e alla poesia soprattutto. Ma sarebbe riduttivo pensare che questa contaminazione, questa specie di ibridazione culturale sia stata unicamente veicolata dai media. Questi ultimi, per ragioni molteplici connesse anche alla loro architettura, alla loro struttura, sono diventati il megafono di un processo sociale, ampio, difficile da circoscrivere con precisione e nato mentre Dylan cominciava a scrivere e a cantare, che nelle sue tendenze più spontanee e originarie, tra le altre cose, ha agito per l’abbattimento di barriere sociali, vincoli formali, schemi preesistenti.

E in questo “complesso di cose”, come direbbe Paolo Conte, altro cantautore dotato di carisma poetico, probabilmente c’entra un po’ anche il ’68, movimento, o meglio fenomeno sociale e della cultura, in primo luogo giovanile e studentesco, avviatosi con qualche anno di anticipo proprio negli Stati Uniti. Evitando di fare il punto sulle conseguenze del ’68 e senza fermarsi ora a giudicare nel merito, è verosimile che la carica trasformatrice di alcuni dei semi di quel momento storico, germinati negli anni successivi in ogni ambito del vivere civile, abbiano interessato anche la percezione collettiva e profonda del campo vasto della cultura, nonchè dei limiti della letteratura e delle sue forme. Sebbene, saggiamente e giustamente, Dylan, che pure inizia a pubblicare i suoi dischi nei primi anni ’60, abbia sempre negato di cantare per conto di qualcuno, la sua popolarità e quella di altri cantautori a lui assimilabili, è stata in qualche modo incrociata e supportata, direttamente e in modo indiretto e osmotico, dall’onda, grande e lunga, che in varia misura si collega al ’68, e ad altre istanze sociali e tensioni libertarie che a partire quel periodo prendono il via. E la parentela tra le diverse anime del movimento studentesco e una parte della musica d’autore è esplicitata anche dalla capacità dell’artista di Duluth di proporre in tanti dei suoi testi i temi dei diritti civili, mutuati dal maestro Woody Guthrie, e dell’antimilitarismo, cavalcandoli, traendone forza e possibilità di avere influenza su pubblici vasti. Non è un caso che alcuni tra i figli e i nipoti, legittimi o illegittimi, di quell’epoca abbiano salutato con gioia il Nobel a Dylan.

Alla fine degli anni ’80, osservando i consumi culturali dei giovani e cercando di spiegare gli esiti di quanto si è detto sopra, Pier Vittorio Tondelli raccontava questo nuovo stato delle cose e nel suo articolo Poesia e Rock, pubblicato in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ’80 (Bompiani, 1990) scriveva: “Il bisogno di poesia, bisogno assoluto e struggente negli anni della prima giovinezza, è stato soddisfatto da intere generazioni mandando a memoria parole e strofe di canzoni: ballate pop, testi psichedelici, neofuturisti, intimisti, sentimentali, onirici, politici, ironici, demenziali… Mentre la poesia colta rimaneva territorio di interpretazioni, esegesi, svolgimenti noiosi sui banchi di scuola, mentre la poesia della neoavanguardia si studiava, con identici modi, nelle aule universitarie; mentre i poeti degli anni settanta tendevano a imitare i cantautori, salendo su improvvisati palcoscenici, nelle piazze e nelle pinete, cercando come Allen Ginsberg di accompagnare i versi con la musica di un organetto, di una fisarmonica o di una pianola, i giovani riesumavano la figura classica del poeta, colui che unisce le parole alla musica. Così i grandi poeti degli anni sessanta furono (anche) Bob Dylan e Joan Baez, i Beatles e Jim Morrison, Leonard Cohen e Patti Smith, autori, questi ultimi, anche di romanzi e raccolte di poesie”.

In Italia negli anni ’90 a più riprese alcuni critici musicali si sono chiesti sui giornali se le canzoni dei cantautori potessero essere considerate poesia. Tema che il poeta Mario Luzi liquidò nell’aprile del 2000, precisando la differenza tra il testo di una canzone e quello di una poesia: “Uno è intuitivo, l’altro di riporto. Ci sono canzoni molto belle, ma non ci sono collusioni fra loro e la poesia. Quando ho detto queste cose, ho ricevuto dai cantanti parecchi insulti mascherati, soltanto Francesco De Gregori ha capito”. Osservazione opportuna, tecnicamente ineccepibile quella di Luzi, ma inevitabilmente lontana dalla percezione, anche inconscia, di una maggioranza estesa e sempre più influente.

E nel suo saggio Sulla poesia moderna (Il Mulino, 2005, 2015), Guido Mazzoni, poeta e professore di critica letteraria e letterature comparate all’Università di Siena, torna sulle riflessioni di Tondelli e le attualizza così: “Mi sembra innegabile che, per la storia sociale della cultura, Seamus Heaney, nato nel 1939, sia molto meno importante di John Lennon e Paul McCartney, nati nel 1940 e nel 1942”. Ancora, sempre Mazzoni, sottolinea che: “Benchè i testi delle canzoni compongano un territorio letterario sfrangiato e plurale, possiamo dire che i soggetti lirici della musica leggera, presi nel loro complesso, si distinguono da quelli poetici per due elementi essenziali: il rapporto con una cultura di diverso tipo e la consapevolezza di possedere un solidissimo mandato sociale. L’antropologia della musica rock e pop coincide per lo più con lo spettro dei modelli umani propagandati dalla cultura giovanile… l’immagine stereotipata del poeta romantico, improponibile nell’ambito della letteratura colta, ricompare nell’universo rock”.

Oltre le considerazioni tecniche, le analisi e gli studi sul perimetro della letteratura, e oltre quello che si può pensare di questo premio, la giuria del Nobel ha riconosciuto qualcosa che si può indicare come lo spirito del tempo, o una porzione significativa dello stesso, una sorta di pensiero collettivo, più o meno eterodiretto, di vox populi. Ci sembra questa la ragione più plausibile del Nobel per la letteratura a Bob Dylan. E anche le motivazioni dell’Accademia di Stoccolma, pur sintetiche e astratte, come quasi sempre succede in questi casi, mostrano l’intenzione di evidenziare un cambiamento in atto, o meglio già accaduto, quando recitano che l’autore di Jokerman ha “creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana”.

Però, non si può non rilevare che il Nobel per la letteratura va a un autore di canzoni, e a un cantante, che più di altri tra i suoi colleghi, in molti testi, si è avvicinato alla poesia, è riuscito a sfiorare la scrittura poetica, a collocarsi in una posizione di confine. E, per gioco, forse giova anche ricordare che il nome d’arte scelto da Robert Allen Zimmerman riecheggia quello del poeta gallese Dylan Thomas. Tutto cambia, ma non troppo. Vale a dire che l’eco grande della poesia o, se si preferisce, il significato simbolico della parola poesia resta sempre molto importante quando si parla di letteratura, quali che siano le forme e i limiti con cui viene identificato il campo della letteratura.

Foto di copertina: Bob Dylan e Joan Baez – Marcia per i diritti civili, Washington D.C., 28-08-1963

TAG: '68, accademia, Bob Dylan, Cantiatori, Canzone, canzone italiana, classici letteratura, Dirittio civili, Movimento, Musica, poesia, Premio Nobel
CAT: Letteratura

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