Come mai in Italia la critica letteraria è una gigantesca marchetta?

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29 Luglio 2017

Nelle bacheche social, che spesso sostituiscono il vecchio e caro passaparola, non è raro incontrare la seguente invocazione laico-letteraria: «Avete un buon libro da consigliarmi?». Seguono generalmente un paio di spicciole indicazioni geo-sentimentali, come il luogo eletto di una vacanza, o la condizione medio-affettiva del momento, in modo da comporre qual tanto al chilo psicologico che possa indurre l’avventore social a formulare la sua sentenza editoriale. È del tutto probabile che quell’insieme di sollecitazioni librarie rimanga semplicemente lettera morta, l’obiettivo del “gioco” è esattamente mettere in piedi una giostra impazzita che, in termini di considerazione, gratificherà semplicemente l’interesse autoreferenziale di chi lo ha concepito.

Non è mai chiaro cosa ci spinga a leggere un libro. I percorsi sono innumeri, ma certo non sarebbe così stravagante se le persone che hanno voglia di leggere si affidassero, oltre che alla propria sensibilità o a un post su Facebook, anche alla conoscenza di chi ne ha fatto un mestiere, il mestiere del critico. Il critico esiste non per darci un consiglio (se ne fotte bellamente di noi lettori), ma per spingerci a seguirlo. Più viene seguito, più il critico esiste. Più è considerato, più farà opinione. Più si avvicina alla condizione di onnipotenza, più dormirà con gusto. A tutte queste perversioni, non si arriva così, bevendosi un paio di Martini cocktail intorno alle sette, semmai bevendosene migliaia con le persone giuste, con le letture giuste, le sensibilità giuste. Perché per stroncare Philip Roth, il dio di tutti gli scrittori, Baricco e Ciabatti compresi, è utile essere vagamente credibili.

È di questi giorni una notizia molto ghiotta nel mondo dei libri. Si “pensiona” Michiko Kakutani, terribile critica letteraria del New York Times. Per una corposa ristrutturazione aziendale, il giornale le ha offerto uno scivolo e lei a 62 anni, accompagnata da chiarissima fama, se ne va per nuove avventure. «A molti scrittori – scrive Antonello Guerrera su Repubblica – Kakutani non mancherà affatto». Segue modestissimo elenco di “odiatori” di fama planetaria, tipo Jonathan Franzen che «se la prese così tanto perché Michiko aveva scritto sul New York Times che il suo “Zona disagio” era, per dirla alla Oscar Wilde, «il ritratto dell’artista da giovane somaro». Ognuno dei grandi scrittori stroncati, per giustificare lo sfregio di una stroncatura, le attribuiva deviazioni psicanalitiche e se per Salman Rushdie che Kakutani descriveva “autoreferenziale ed esibizionista” era «una strana», Nicholas Beker sublimava con una terribile immagine ospedaliera: «Leggere una sua recensione è come l’asportazione del fegato senza anestesia». Uno dei top fu David Foster Wallace che “pianse per due giorni in camera dopo aver letto la recensione del suo esordio «La scopa del sistema», mentre Norman Mailer, “dopo l’affossamento di «Il Vangelo secondo il figlio» (“un romanzo involontariamente comico”), la accusò di odiare gli uomini e di essere intoccabile “perché asiatica e femminista”».

La lunga storia di Kakutani deposita fuori dal nostro uscio la domanda più semplice: come mai oggi in Italia la critica letteraria è solo una gigantesca marchetta? Badate bene: non tutti i segmenti intellettuali della critica, ma unicamente la critica letteraria. Il cinema, ad esempio, non riflette questo schema “padronale”, è sempre stato più libero, probabilmente ha potuto vivere su personalità più definite, prendiamo Kezich a paradigma di un’intera categoria, per cui oggi è semmai possibile parlare di critici non all’altezza, non così preparati come una volta, magari anche arrangioni, ma totalmente servi di un potere no. Come per il cinema, anche nostra la critica letteraria ha vissuto anni straordinari e straordinari sono stati gli scazzi. Ma nulla è rimasto, come mai? Una risposta ci sarebbe: se il critico cinematografico è (ancora) riconosciuto come un mestiere che comunque in Italia ormai pare spiaggiato, il critico letterario si è consumato nel tempo fino a scomparire. I giornali non ne hanno più sentito l’esigenza, pur mantenendo in pagina valanghe di sollecitazione editoriali. Si è formato quasi naturalmente il critico “occasionale”, tipo il giornalista, il costituzionalista, lo stilista, il bagnino figo, categorie così diverse che prendono in mano il libro di un buon amico, di un collega, di un conoscente, restituendolo ai lettori come un mezzo capolavoro. Persino chi scrive è stato sollecitato qualche volta a una recensione di libri-amici, ma se ne è tenuto debitamente a distanza, prima di tutto non considerandosi all’altezza, e poi, appunto, per il rischio di dir meglio o dir peggio di quanto avrebbe dovuto.

È una condizione irreversibile, temiamo, quella che non ci restituirà più la serenità di un vero critico letterario. Serenità che non vuol dire affatto assenza di gusto, passione personale, inclinazione sentimentale per questo o per quello. Anzi, Serenità che è prima di tutto potenza intellettuale di essere liberi oltre che di sentirsi liberi. Serenità di poter giudicare autentici mostri della storia, il che presuppone una preparazione e una profondità mostruose. C’è una correlazione tra il degrado della politica di questi anni e la nascita dell’italico marchettificio letterario? A voi ogni considerazione.

Ma giusto per lasciarci con un “consiglio”, questo sì vagamente credibile, ecco il romanzo che una platea vasta critici americani, in un ventaglio di 156 romanzi, ha considerato “il miglior romanzo dal XXI secolo ad oggi”: «La breve favolosa vita di Oscar Wao» di Junot Diaz, che proprio Michiko Kakutani ebbe a definire “un incrocio tra Vargas Llosa, Star Trek, David Foster Wallace e Kanie West”.

Non c’è come leggerlo e, magari, dissentire.

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