Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché

14 Dicembre 2017

Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Fabio Martini, inviato de La Stampa, a Gli Stati Generali

Caro Direttore,
c’è un personaggio che sta diventando familiare sulla scena pubblica nazionale: il giornalista indignato. Compare come ospite di piccoli e grandi talk show, firma editoriali, presidia la Rete. L’oggetto della sua riprovazione può variare – dalle abitudini alimentari degli italiani alla xenofobia di Salvini – ma la postura è sempre la stessa. L’indignazione a buon mercato è uno degli escamotages dispiegati da tanti giornalisti per difendere il proprio ruolo sociale, da qualche tempo insidiato da un fenomeno nuovo, al quale non eravamo abituati: la crisi di credibilità che sta colpendo il sistema dell’informazione.

Si vendono meno giornali e si vedono meno talk show: indizi di una diffidenza verso i vecchi media, che sulla Rete diventa spesso umore malmostoso. I politici hanno annusato l’aria e cavalcano questo sentimento, lieti di poter scaricare una parte dei propri errori sul sistema dell’informazione. E noi giornalisti, da sempre coccolati nella nostra rendita di posizione, scopriamo di essere guardati in cagnesco: dai politici ma anche dalla “gente”. Brutta china: per quanto imperfetti, i vecchi e nuovi media che fanno il proprio mestiere, restano un contropotere irrinunciabile nelle moderne democrazie. Ed è perciò interessante provare a capire come si sia arrivati a questa delegittimazione strisciante.

Il punto di partenza è qualcosa che somiglia ad una confessione: alle nostre latitudini l’ indipendenza del giornalista non è mai stata un valore in sé. Da noi non è mai esistito il culto del quarto potere. Perché sin dalle origini (in epoca napoleonica) in Italia i giornali nacquero come espressione del mondo politico e letterario e dunque la vocazione alla notizia commentata ha sempre prevalso sulla notizia in sé. La neutralità è sempre stata sinonimo di ingenuità e di inconsistenza. Questo dna non ha impedito nel Novecento e fino ad oggi, stagioni di grande giornalismo. Sulla carta stampata, in televisione (Rai compresissima) e più di recente su alcuni siti web di informazione. Una lunga striscia di pluralismo formale e sostanziale. Grazie a tanti giornalisti e giornaliste, appartati o in prima linea, gelosi della propria indipendenza.  E anche grazie a direttori coraggiosi. O geniali. O faziosi, ma innovatori. Di tutti gli orientamenti politici e culturali.

Eppure, anche nelle stagioni di grande informazione, questo dna consociativo è restato in circolo, sia pure non visibile ad occhio nudo. Una parte dei giornalisti giudiziari (non tutti!) sono, o sono stati, collegati ai più importanti magistrati. Parte dei critici cinematografici sono, o sono stati, amici dei grandi registi. Parte dei giornalisti sportivi hanno rapporti stretti con i campioni o con le società. Parte dei giornalisti economici sono sensibili agli interessi delle imprese. E parte dei giornalisti politici sono spesso gregari o addirittura tifosi dei leader. Di governo e di opposizione. Questa contiguità con tutti i poteri (mai diventata subordinazione) non si è trasformata nel connotato prevalente, ma ora – in una stagione di crisi d’identità  – è diventata più evidente e può far male.

Proviamo a restringere lo sguardo sull’informazione politica. Il modo intelligente di darne conto in alcune emittenti (in particolare su “la 7” di Enrico Mentana) e il boom della Rete hanno ristretto il campo d’azione dei giornali. Prendiamo le interviste. Quelle televisive sono certamente assillanti e ripetitive, ma le facce in primo piano dei leader, le loro reazioni istintive alla fine restituiscono più “verità” di quella offerta dalle interviste sui giornali, spesso contrattate e cortigiane. Dunque, lo “specifico” dell’informazione sui quotidiani si è ristretto, essenzialmente a due binari: proporre una propria gerarchia degli eventi e darne una lettura la più penetrante possibile, anche grazie al valore aggiunto dei “retroscena”.

Nato, come logo, il 2 ottobre 1990 durante la direzione Mieli alla “Stampa”, il retroscena per qualche anno è stato il “luogo” nel quale confluivano pensieri, parole e fatti, scoperti dalla capacità indagatrice del giornalista. Col passare degli anni il retroscena ha finito per diventare il regno del verosimile. Caduto quasi ogni filtro giornalistico, spesso è diventato una sorta di prolungamento dell’ufficio stampa dei leader, che vi depositano verità a proprio uso, mezze verità, polpettine avvelenate. Un’involuzione che oramai nelle redazioni fa dire – quando una notizia non trova conferma – <la mettiamo a retroscena?>.  L’altra deformazione riguarda la titolazione. In particolare delle prime pagine. Le forzature del passato stanno lasciando il campo a plastiche invenzioni. Chiunque ripercorresse le “prime” di alcuni dei principali quotidiani negli ultimi tre mesi potrebbe restare spiazzato, confrontando la distanza tra le profezie di alcuni titoli e quel che poi (non) è accaduto.

Insomma, l’attuale crisi di credibilità del mondo dell’informazione sembra risentire anzitutto dell’atavica contiguità con gli altri poteri, che però non è più un segreto per un’opinione pubblica diventata più smaliziata e quindi più diffidente. In più, negli ultimi tempi, hanno preso spazio vizi antichi in forme nuove. L’enfasi. L’approssimazione. La demagogia. I  media li stanno condividendo con una controparte che andrebbe tenuta a distanza: la politica.

Fabio Martini

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