Ma voi lettori credete davvero che le interviste ai politici siano vere?

1 Agosto 2016

Non ricordo il giorno in cui il giornalismo si è definitivamente piegato alla politica. Non dev’essere un giorno preciso, traumatico, altrimenti porterei i segni di una qualche disperazione. Invece sono ancora calmo, il che forse è peggio. Per tornare a bomba, più probabile che sia stato un infiacchimento costante e progressivo sino alla definitiva capitolazione in cui il caro, vecchio, amato mestiere è stato adagiato sul tavolaccio della morgue per il referto finale. Fatto sta che ciò che appare sui nostri giornali, i nostri più grandi giornali, è sempre meno il frutto di libere scelte editoriali e sempre di più il risultato di uno straordinario compromesso al ribasso, dove le ragioni dei politici – ovviamente parziali e interessate – sono rappresentate in maniera percentualmente spudorata rispetto al raggio di autonomia e di pensiero del povero cronista. Ci siamo sostanzialmente trasformati in gazzettieri in nome e per conto di.

IL CONTROLLO (POLITICO) SULLE INTERVISTE – Un tempo la pratica, invero barbarica, del controllo post-intervista di ciò che il giornalista aveva prodotto era semplicemente inimmaginabile. Soprattutto perché fondava su una mancanza di rispetto e di fiducia reciproca, intollerabile tra professionisti. Se oggi l’ultimo pirla che passa è in grado di alzare la voce con il cronista che lo intervista, imponendogli il controllo a posteriori, ciò accade soprattutto per nostra responsabilità. È paradossale che nei peggiori anni della politica, da cui un’anti-politica dilagante e oscena, gli unici che si sono fatti maltrattare dai politici siamo proprio noi. Oggi ci facciamo strapazzare persino dal portavoce di una mezza calza politica, dunque mezza calza a sua volta, che detta condizioni, tempi, misure redazionali, impaginazione. Sono così preparati questi ragazzetti sul nostro stato di malessere, così edotti sullo scarsissimo peso politico della categoria, che la traduzione simultanea di tutti questi sentimenti è ciò che abbiamo sotto gli occhi nelle pagine politiche dei giornali. Non è nemmeno così raro che il giorno dopo, a controllo avvenuto e a intervista pubblicata, il portaqualcosa abbia ancora il coraggio di romperti i coglioni per sottolineare con aria scocciata: “Eh, ma come mai non è l’apertura della pagina?”

L’insana voglia di compiacere il Potere, che i migliori di noi hanno pregevolmente rappresentato in questi ultimi venticinque anni svendendo un mestiere, ha tragicamente messo in debolezza i giovani cronisti che quotidianamente hanno a che fare con il Palazzo. Ci sono quotidiani che non ci pensano due volte a girare il manufatto redazionale nelle mani del politico in questione, neppure fosse un antico automatismo, altri che invece un poco più saggiamente ne fanno almeno una questione di «importanza». Insomma, la realtà è che siamo a disposizione. Non che un tempo si fosse eroi, nessuno lo è mai stato, ma almeno calava dall’alto una certa protezione editoriale, un certa qual vocazione all’interesse collettivo del giornale, ch’era poi quello di portare in pagina cose fresche, anche magari polemiche, scritte con un certo garbo e una certa vivacità. Ecco, per dire delle cose giornalisticamente “polemiche”: si partiva con questo obiettivo, si partiva per cavare qualcosa da quell’intervista, perché il tipo in fondo abboccasse alle nostre provocazioni, magari anche in un condiviso gioco delle parti. Mettetela come volete. Metteteci pure, perché anime belle non ce ne sono più, che si poteva trovare persino un accordo/ricatto con il politico, nel senso di onesto scambio di interessi. O mi dai qualcosa, caro amico, o non v’è ragione alcuna, ma davvero alcuna, per intervistarti. Oggi invece le parti sono rovesciate, siamo noi i migliori illustratori del nulla di lorsignori, siamo noi che censuriamo alla radice anche il più timido accenno critico, nell’ambito della saggia redistribuzione di equilibri politici che non possono essere messi a repentaglio dal primo pazzo che magari ti spara un attacco sul giornale.

LE INTERVISTE SENZA VOCE – Sono quelle in cui due persone – il giornalista e l’intervistato – non si incontrano, non si vedono, non si parlano. Sono quelle in cui la redazione prepara un bel listone di domande, lo spedisce con ricevuta di ritorno, e poi dopo qualche ora ne attende la restituzione con risposte incorporate. Sono quelle interviste che un giornale dovrebbe concepire soltanto in occasioni assolutamente eccezionali, per cui anche una formula così limitante è pur sempre un contributo di conoscenza: un capo di stato straniero, un dittatore, il capo di una fazione in guerra. Casi limitatissimi. Invece, qui da noi se non è prassi poco ci manca. È prassi per esempio in Fininvest con Marina Berlusconi, la quale dispensa le sue freschissime visioni del mondo solo attraverso questo meccanismo (il suo ufficio comunicazione ad alcuni piazza addirittura le domande, non solo le risposte!). La pratica dell’intervista a domande scritte non sembra così sconosciuta neppure al nostro presidente del Consiglio. Il lettore può tranquillamente sgamare questi “liberi” faccia a faccia (e dunque evitarsene la lettura) perché totalmente privi di qualsiasi riferimento alla vita che scorre. Non una nota d’ambiente (“la voce allegra nonostante le preoccupazioni…”), né una di colore (“alle pareti un’orrenda stampa…”), né richiami al modo di vestire (“una spiacevole cravatta gialla…). E soprattutto, nessuna interruzione del cronista rispetto allo scorrere delle parole dell’intervistato. Ogni blocco domanda/risposta è a compartimento stagno.

Possiamo riguadagnare qualche posizione, noi giornalisti? Da soli no. Ci vuole un movimento, un pensiero che scorra inquieto anche in qualche testa importante. Qualcuno che preferisca l’autorevolezza del giornale a ogni equilibrio politico. Noi modesti pedalatori quotidiani qualcosa però possiamo fare. Mostrarci poco tolleranti alle mediazioni, far cadere la comunicazione telefonica appena i nostri amici politici (o chi per loro) si fanno troppo arroganti. Mandarli a cagare, se necessario, In fondo, prima di noi, qualcuno lo ha già fatto. E non è successo niente di irreparabile.

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5 Commenti

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  1. alberto-biraghi 8 anni fa

    Bè, capita che se li mandi a cagare loro ti querelano. E anche se il giudice (come quasi sempre accade) ti dà ragione, Lorsignori hanno ottenuto il risultato di levarti la voglia di mandarli a cagare, perché in Italia aver ragione costa comunque soldi, perché gli avvocati e gli atti non li rimborsa nessuno. Con un giornalismo diviso in una piccolissima aristocrazia privilegiata e collusa a cui si contrappone una maggioranza di free lance sottopagata e a caccia di lavoro è chiaro che nessuno si azzarda a mandare a cagare alcun potente.

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    1. michele.fusco 8 anni fa

      È il malinconico stato dell’arte. Grazie, Alberto.
      mf

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  2. mauro-boccuni 8 anni fa

    Gentile Fusco, mi fa piacere che sia sia “confessato”, per così dire :)
    E in nome della sua categoria che è spesso sotto benevolo, ma deciso attacco da parte dei lettori. Penso a Prima Pagina di Radio Tre o alle rubriche via mail della stampa dove le critiche da lei riportate fioccano copiose.
    Quando facevo la mia tesi in radio RAI 30 anni , parte del metodo era teso ad osservare anche le motivazioni di questa sorta di “resa” professionale al clima dell’azienda editoriale in cui si opera e/o all’identità del settore di cui si fa parte.
    Ciò detto le chiedo comunque e non retoricamente: PERCHE’ i giornalisti si comportano così?

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    1. michele.fusco 8 anni fa

      Ah caro Mauro, è l’unica domanda che non deve farmi! La mente umana è troppo complessa, ma intanto le cose che lei ha scritto qui qualche risposta cominciano a darla.
      Un saluto, mf

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  3. massimiliano-zanoni 8 anni fa

    Fusco continua a dar prova di essere un giornalista.
    Scrivendo l’ovvio forse, cose che l’autocensura diffusa non consente nemmeno
    piu di pensare per via di quell’’insana vogla di compiacere il Potere,, che evidentemente ancora non l’ha infettato.

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