Se la pietas online se ne va

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25 Agosto 2016

In quei giorni del 1980 – quando l’Irpinia crollò squassata dal terremoto – la maestra ci fece comprare un album. Voleva che incollassimo, sui fogli bianchi, i ritagli degli articoli di giornale che raccontavano la tragedia. Aveva la copertina azzurra, il mio album. Me lo ricordo bene. E bene mi ricordo l’angoscia nel leggere le parole piombate sui ritagli incollati. Mai avrei immaginato che, anni dopo, toccasse anche a me scrivere di un sisma. Nella mia terra, l’Emilia-Romagna, per giunta.

Non esistevano i cellulari, in quei giorni. Il telefono andava a gettoni, forse comparivano le prime tessere telefoniche. Le notizie le davano i quotidiani e la Tv. Ossia la Rai. In strada e nei bar si commentava. Con sgomento e rispetto. Con pietas.

Tornato a casa dal lavoro, ieri sera, ho aperto il pc e ho cominciato a dare un’occhiata alla Rete. Ho scorso le ‘ultima ora’ con la conta, mesta, delle vittime e dei feriti dei crolli per le scosse che hanno attraversato Lazio, Umbria e Marche. Le immagini della devastazione. I racconti degli inviati.

Poi, ho, virato su Facebook e i social network. E, su varie bacheche – non su tutte, va detto – mi si è spalancata una specie di Apocalisse. La fine della pietà. Il punto di non ritorno: zuffe politiche, strumentalizzazioni, ironie fuori luogo, razzismo dilagante. La voglia di dire la propria – cosa lodevole e anima dei social – che scolora nell’invettiva e nel travaso di bile: le scosse che squarciano la terra come sorta di punizione per le unioni civili; la vegana che inchioda Amatrice al karma per aver dato i natali all’amatriciana; il ritornello dei profughi in alberghi multistelle e gli italiani nelle tende; il complotto dietro alle donazioni via sms che, ‘tanto si sa che non vanno a chi ne ha bisogno’.

Cose così. Che sul Web rimbalzano – più o meno violentemente – quasi ogni giorno. Se non fosse che ieri, oggi, sono i giorni della vicinanza, del sostegno, dell’aiuto sincero. Della pietà. Sparita, almeno sulla Rete. Non del silenzio, che di questi accadimenti, è normale si parli. Fosse solo – o soprattutto – per fornire informazioni di servizio. Cose così, che escono fuori da una tastiera. Ché davvero, al bar, faccia a faccia, occhi negli occhi, non verrebbero, forse, nemmeno pensate. Molto probabilmente nemmeno dette.

E nell’Helzapoppin mediatico, a cadere – talvolta – tocca pure a noi cronisti. La giornalista della Tivvù che si fotografa in posa ‘fashion’, sotto lo stipite di una porta per spiegare dove mettersi in caso di sisma, rischia di oscurare – online per lo meno – il lavoro dei tanti inviati che, sul campo, cercano di raccontare nel modo più puntuale e preciso. Di chi, con le parole e le immagini, tenta di informare.
Il giornalista che dice ‘c’è una scena straziante, guardate qui, prego l’operatore di stringere’, oscura i cronisti che provano a chiedere alle persone sconvolte di raccontarsi, avvicinandosi con tatto e dignità. Comportamenti che quasi forniscono – quasi – una sorta di ‘alibi’ a chi sulla Rete, non vede l’ora di scatenarsi a suon di ‘pennivendoli’ e ‘giornalai’, gridati all’indirizzo di una intera categoria. Gonfiando quell’onda di livore che travolge tutto, senza se e senza ma, che tanto, ‘quelli sono tutti uguali’.

E non basta chiudere il pc o disconnettersi da Facebook. Quando la pietà se ne va.

(pendolarita.blogspot.it)

 

TAG: giornalisti, media, Sisma centro Italia, social media, social network, terremoto
CAT: Media

8 Commenti

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  1. evoque 8 anni fa

    La Rete, il mitico Web fa emergere la vera personalità di ciascuno di noi, un po’ come l’automobile: ci si sente al riparo nel proprio guscio, che sia l’involucro metallico della macchina o la stanzetta di casa propria, e questo permette ai codardi di esserlo fino in fondo. Non sono dunque la Rete o l’auto a trasformarli in iene. No, sono proprio iene.
    Chi è civile nella vita reale, lo è anche in quella virtuale. Chi non lo è, magari camuffa o tenta, ma sul Web si esibisce in tutta la sua oscenità. Vorrei aggiungere due righe sulla tv e sui servizi in occasioni di tragedie come quella di questi giorni: un surplus di parole, di ripetizioni, di ridondanze quando non di smaccate immagini porno. Sì, porno: esiste anche la pornografia legata al dolore e nell’articolo è ben citato un esempio in tal senso. Io, per quanto mi riguarda, mi informo senza voracità (mentre la tv, i media in genere tentanto di trascinarti in questo vortice) e non indugio su immagini e narrazioni forti per una questione di sensibilità personale e anche per rispetto verso coloro i quali soffrono o che addirrittura sono morti: non è ammessa (non dovrebbe esserlo) la spettacolarizzazione del dolore.
    A questo proposito voglio citare, come esempio da seguire, ciò che ho visto ieri sera durante il tg della tv svizzero-tedesca: servizi completi, ben fatti, interviste a persone svolte con tatto, immagini eloquenti, senza indulgere al sensazionalistico. Al termine, intervento in studio di un esperto di terremoti. Tutto quel che c’era da sapere è stato trasmesso.

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    1. alding 8 anni fa

      Concordo pienamente con te, Evoque. Veramente non sopporto la ricerca di immagini indiscrete, di corpi recuperati dalle macerie (per fortuna solo quelli dei sopravvissuti), come se ciascuno di noi non fosse capace di immaginare il dolore e la disperazione di quella gente.E non sopporto nemmeno le esagerazioni verbali di cronisti televisivi, del tipo “il paese non esiste più”, “è crollato tutto”, etc. come se non fossero sufficienti le immagini per spiegare cosa è accaduto e che quel 50% di edifici crollati è più che sufficiente per dare al disastro e al dolore una dimensione più che sufficiente. Tutta questa macabra spettacolarizzazione è iniziata con la tragica vicenda di Alfredino Rampi 35 anni fa e da allora è andata sempre peggiorando. Possibile che non sia possibile porre fine a questo e tornare a informazioni rispettose del dolore di ciascuno di noi? Possibile che un giornalista, un cronista, non abbia la capacità di porsi questa domanda?

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      1. evoque 8 anni fa

        Credo che chi fa informazione sia consapevole di questi eccessi, ahilui ma soprattutto ahinoi, non può sottrarvisi: la spietata concorrenza (che non sempre è un bene) glielo impedisce. E’ anch’egli una rotellina di quell’ingranaggio infernale, di quello spietato e osceno circo barnum che è diventata l’informazione. Io cerco di proteggermi. Almeno di non esserne complice. Sia pure passivo.

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  2. ed 8 anni fa

    I commenti stupidi, razzisti, l’ironia (evviva almeno quella!) c’erano anche prima, ma prima restavano lì. Si spegnevano sul momento. Non erano pubblicato come fossero in TV. Non lasciavano strascichi e chiunque poteva concedersi un momenti di cattiveria senza diventare un merdoso sostenitore di casapound.
    Oggi la cattiveria e la stupidita non restano più confinate ad una battuta estemporanea. Rimbalzano e moltiplicano sé stesse e fanno danni enormi, lasciano ferite…
    Oggi è più difficile essere semplicemente umani. Oggi sarebbe necessario essere più responsabili.
    Che stress!

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  3. manuela-fragal 8 anni fa

    Bellissimo articolo.

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    1. gienks 8 anni fa

      Grazie mille Manuela

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  4. sandro-moro 8 anni fa

    Caro Angelini, ho apprezzato il modo accorato con cui cerca di non partecipare alla rissa e anzi di evocare altri orizzonti. Non frequento FB in questi giorni, per le ragioni che dice. Mi chiedo piuttosto, (con Evoque), se possiamo “assolvere” il mezzo rispetto al messaggio, consolandoci con il fatto che la Rete non farebbe che portare alla luce quel che nel profondo c’è comunque. Io non ne sono così sicuro, e penso invece che i social siano un potente fattore di disgregazione sociale: da sempre la disponibilità di canali espressivi dà forma ad un contenuto che senza di essa “ristagnerebbe” oscuro, forse in attesa di altre occasioni, ma magari anche solo si consumerebbe nelle dinamiche (opportunamente) inconscie. Ardua questione, comunque.

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    1. gienks 8 anni fa

      Concordo sull’ardua questione. Anche io vorrei assolvere il mezzo, se possibile. L’ondata di livore che vedo colare dai social media mi atterrisce. E nemmeno poco.

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