L’Immenso

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1 Aprile 2018

Sapevo che alla fine avrei scritto questa storia. Ha navigato a lungo dentro di me; e ora che sono passati alcuni anni, che conosco più cose, che sono –come infine un po’ tutti- anche cambiato, è l’ora di lasciarla uscire. Anche perché ogni volta che sentirò la canzone dei Negramaro, l’Immenso, questa storia sarà lì, tutta intera, ad aspettarmi.

Qualche anno fa in Italia il Ministero dell’Università e della Ricerca era molto più munifico di oggi ed aveva lanciato dei mega-programmi di finanziamento che coinvolgevano molti Enti. Il mio all’epoca era coinvolto in un grande progetto “FIRB” (Fondo per la Ricerca di Base), detto tra noi “il FIRBone”. Erano tanti soldi per una ricerca complessa nell’ambito delle nanotecnologie, con sottoprogetti di tipo diagnostico, biologico ecc. L’unità capofila del FIRBone era l’Università di Lecce e, tipicamente, ogni autunno ci ritrovavamo là per una riunione operativa. Ogni ricercatore mostrava l’attività dell’anno precedente, si confrontavano i risultati attesi con quelli effettivamente ottenuti, si programmava l’attività per l’anno successivo in dettaglio. Come è facile capire, oltre che un’occasione per fare buona scienza il meeting era anche un vero spasso. Lecce è una città meravigliosa: dopo la riunione passeggiavamo nel centro storico; compravamo vino (con relativa spedizione a Pisa); e finivamo in un qualche ristorante tipico ad assaggiare le specialità salentine. Specialità peraltro già assaggiate durante le riunioni, in forma di fantastici coffee-breaks.

In uno degli ultimi anni di progetto, due ricercatori parteciparono da Pisa alla riunione leccese: un mio collega ed io. Era un momento particolarmente bello: appena arrivati il mio collega mi confessò l’emozione di diventare a breve babbo di un bimbo. Non è usuale tra maschi dirsi queste cose. Ricordo che stavamo camminando in centro con una meravigliosa luce rossa del tramonto che si aggiungeva al colore giallognolo degli edifici. Da un bar, lo ricordo benissimo, suonava a tutto volume l’Immenso dei Negramaro; una canzone bella ma di una tristezza strana. I Negramaro, orgoglio salentino; non ci feci troppo caso ma mi piacque il momento, i colori e la colonna sonora; e il mio cervello lo registrò. Il meeting fu un ottimo successo, se ricordo bene.

Una delle principali differenze tra noi ed animali come i calamari risiede nel come sono fatte le cellule nervose, i famosi neuroni. In tutti gli animali, i neuroni comprendono una parte approssimativamente sferica, il soma, che include tutto il macchinario per far funzionare la cellula; dal soma diparte un lungo filamento, l’assone, attraverso il quale l’impulso elettrico nervoso raggiunge il soma degli altri neuroni e con loro stabilisce le connessioni nervose. I calamari hanno degli assoni con spessore molto grande (fino a 1 millimetro), ricoperti soltanto da una leggera e permeabile membrana; quelli degli animali superiori hanno spessore molto ridotto (qualche millesimo di millimetro), e sono avvolti in una membrana molto più “corposa” e impermeabile, la mielina. Grazie alla mielina è possibile impacchettare molti più neuroni insieme mantenendo un’alta velocità di conduzione dell’impulso elettrico. Da un certo punto di vista, la mielina è analoga alla guaina di plastica isolante che avvolge i fili di rame dove scorre la corrente.

Esistono malattie, dette leucodistrofie, in cui la mielina si forma male. Nella malattia di Krabbe, una malattia genetica trasmessa ai figli da genitori portatori sani dei geni “difettosi”, la mielina si disfa lentamente per l’accumulo di una sostanza che non viene trasformata come negli individui sani. Fino a 3-6 mesi i bambini appaiono sani; poi cominciano a presentare segni di ritardo nello sviluppo mentale e motorio, problemi di alimentazione. Lentamente le cellule nervose muoiono, e il bambino si spegne.

Pietro, il bambino del mio collega, nacque nella primavera successiva alla riunione leccese. Dopo alcuni mesi cominciò a stare male. Furono fatte analisi, negli ospedali di mezza Italia, e solo dopo alcune settimane fu diagnosticata la malattia di Krabbe. A luglio dello stesso anno offrii una cena in un ristorante in un paesino montanaro vicino a Pisa. La cena era per festeggiare che avevo vinto un concorso ed entravo come ricercatore al CNR. Vennero anche Pietro ed i suoi genitori. C’era anche mio figlio che aveva un anno. La cena non si può raccontare, ma sono contento di averla fatta e non certo per il concorso.

La malattia di Krabbe colpisce circa un bambino ogni 100000. Come ho detto, è una malattia genetica “classica”: ogni genitore ha due geni, uno “corretto” ed uno “sbagliato”. Il gene “corretto” supplisce in questo caso alla carenza di quello “sbagliato”. I figli ereditano un gene da ciascun genitore; è una lotteria, se toccano entrambi i geni sbagliati si attiva la malattia. I geni della malattia non si esauriscono mai proprio perché, se ce n’è uno solo, la malattia non si attiva. E se si è portatori sani, è davvero improbabile trovare un partner con la medesima caratteristica. Sembrerebbe immensa sfortuna, e di sicuro lo è. 1 caso su 100000! Ma il punto è che tutti noi siamo un po’ imparentati; e persone che provengono da aree geografiche più chiuse hanno –in effetti- maggiore probabilità di contrarre malattie genetiche come la Krabbe.

Si dice sempre che la ricerca sia importante. Lo è senz’altro. Lavoro anche io in questo campo. Ma una soluzione a malattie genetiche di questo tipo non è ancora in vista. Ci arriveremo, sono sicuro; tardi per molti come Pietro, ma ci arriveremo e anche Pietro avrà contato. Tra l’altro si può fare qualcosa anche adesso. Un metodo davvero sensato è lo screening dei genitori, specie nelle aree dove l’incidenza della Krabbe è più forte. Esistono progetti molto interessanti, e forse si potrebbe agire anche a livello politico. Non bisogna avere paura della conoscenza, lo dico ai futuri genitori. Domandate, consultate, serve molto poco.

Ma questo racconto non vuole essere un resoconto scientifico. E’ solo una delle tante storie di come, in un istante, la vita possa cambiare. E siccome non credo al destino, né a qualcosa che trascenda la natura umana, è anche una storia di immagini e suoni, di sole cose materiali. Amaramente, sono tutti elementi scolpiti nei miei neuroni della memoria, che comunicano attraverso connessioni in cui la mielina non è difettosa. E’ una cosa davvero paradossale.

Pietro se ne è andato in una fredda giornata di alcuni anni fa. Ai genitori è rimasto il dolore, a me è rimasto il ricordo di un bimbo sovrapposto alla voce di Giuliano Sangiorgi che canta “se-potessi far tornare indietro il mondo-farei tornare poi senz’altro te”. E’ una bella canzone, l’Immenso.

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CAT: Medicina, Neuroscienze

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