Un romantico a Milano: ho perso le elezioni ma ho ancora voglia di stupirmi

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22 Giugno 2016

Io ho perso le elezioni.
Non ho proprio nulla da festeggiare, perché ho perso le elezioni.
Solo che non le ho perse il 19 giugno. E neppure il 5.
Le ho perse molti mesi fa, quando il progetto civico che avrebbe potuto fare da modello di sinistra moderna e di governo si è consegnato all’autodafé.

Durante la sfida alle primarie del 2010 e la cavalcata vincente nella sfida con Letizia Moratti, Giuliano Pisapia aveva suscitato grosse speranze di cambiamento. Come spesso capita nella vita, il passaggio dai programmi elettorali alla realtà è sempre complicato e un po’ di pezzi si perdono per strada.
Ma Pisapia è stato comunque un ottimo sindaco, il migliore a Milano dagli anni ’70. Lo dicono (quasi) tutti. Il suo merito principale è stato quello di liberare le forze vive della città e di scegliersi un’ottima squadra (“è la giunta che conta”). Dite poco?

Quando all’inizio del 2015 ha deciso di tenere fede al suo impegno di limitarsi a un mandato, ha però dimostrato tutti i suoi limiti politici.
Nessuno poteva obbligarlo a ricandidarsi. Ma era legittimo attendersi che avrebbe provato a definire un progetto che potesse continuare dal punto di vista amministrativo e politico quanto di buono fatto in questi cinque anni. Il progetto doveva essere necessariamente collettivo, provando a riproporre la coalizione del 2011. Una coalizione in cui in tanti avevano trovato spazio per partecipare, proporre e definire un’identità comune che andava aldilà della militanza nei partiti politici. Gli iscritti e i non iscritti lavoravano assieme con pari dignità riconoscendosi in un’idea di sinistra finalmente moderna e di governo.
Ovviamente un progetto del genere si sarebbe poi dovuto coagulare attorno alla candidatura di una personalità, che poteva essere facilmente individuata nella giunta uscente.
Se Appendino e Raggi possono essere prime cittadine di Torino e Roma, non si capisce perché assessori uscenti come Majorino, Maran, Tajani o la stessa Balzani non avrebbero potuto diventare sindaco di Milano. Dopo aver provato sul campo la loro capacità di governo. (E nessuno di questi è giovane. I giovani sono quelli che hanno vent’anni.)
Per un progetto del genere avrei dato anima e corpo. Mi ci sarei potuto ritrovare compiutamente. Avrei fatto una campagna elettorale permanente di un anno. E con me tanti altri e tante altre.

Ma tutto questo non è successo.
Quello che sarebbe potuto diventare un laboratorio politico di sinistra moderna non è mai neppure iniziato. Sarebbe inutile ora provare a stabilire i colpevoli di questo naufragio. Ma certo “da grande potere derivano grandi responsabilità”.
È quindi nel passaggio tra estate e autunno del 2015 che io ho perso le elezioni. I risultati delle primarie lo hanno certificato a posteriori, quando il candidato vincente Giuseppe Sala non è riuscito ad andare oltre il 42% dei voti. Certo non sarebbe stato possibile sommare a freddo i consensi di Majorino e Balzani. Ma se si fosse partiti dall’inizio con un progetto unitario, Sala non avrebbe vinto le primarie.

Da lì in poi, fatica dopo fatica, ci si è trascinati in una campagna elettorale priva di grandi entusiasmi. La coalizione del 2011 è arrivata a produrre quattro diversi candidati sindaco alle elezioni del 2016. E in tantissimi hanno deciso di non spendere il proprio tempo per un progetto in cui non credevano.
Il risultato è stato evidente il 5 giugno. Centotrentamila persone in meno alle urne rispetto al 2011 (-18%). Novantamila elettori in meno per il candidato del centrosinistra (-29%).
Nonostante il disastro però Giuseppe Sala la spunta su Stefano Parisi di quasi cinquemila voti.

A questo punto il gigante addormentato si sveglia. Prima i radicali, poi Basilio Rizzo decidono di appoggiare Sala (sia pure in modo diverso). E questo lo avrete certamente letto sui giornali.
Ma c’è un pezzo di storia che ancora non è stata scritta. Quello che è successo in città in queste due settimane, molto semplicemente, è che tanti cittadini (che per frustrazione non avevano partecipato alla campagna del primo turno) hanno deciso di mettersi in gioco, anche se con un atteggiamento molto diverso dal 2011.
I flussi elettorali dimostrano quello che era facile percepire respirando l’aria del monsone milanese. Sala ha beneficiato di una importante quota di voti provenienti da Radicali e da Milano In Comune. Ma sono i voti degli astenuti del primo turno che lo hanno consacrato sindaco di Milano. Lui lo ha capito bene e lo ha detto con chiarezza alla festa di martedì pomeriggio. Tanti osservatori non osservanti invece ancora girano a vuoto con i loro giudizi sganciati dalla realtà.

La reazione di tanti al risultato di domenica è stata quella che si ha davanti a uno scampato pericolo. Non quella della gioia o della festa.
Perché in tanti hanno capito che Sala non era il miglior candidato. Che il progetto politico che ne aveva generato la candidatura era un sottile tradimento del cambio di vento del 2011. Che i moderati a Milano non esistono (e forse non sono mai esistiti). Che uno spazio enorme per un progetto diverso c’era (e chissà quando ricapiterà). Che ai milanesi interessa avere una buona giunta, e non usare il voto locale per punire il governo nazionale (come ha spiegato bene il Terzo segreto di Satira). Che le elezioni non le vinci rubando elettori ai tuoi avversari ma mobilitando i tuoi (come dicono l’Istituto Cattaneo e I hate Milano).
E non è un caso se nelle sei volte in cui i milanesi hanno votato per l’elezione diretta del sindaco, nessun candidato del centrosinistra aveva preso meno voti assoluti di Giuseppe Sala (epoche diverse, coalizioni diverse, situazioni nazionali diverse, eppure…).
E Maurizio Martina (che pare essere stato il suo grande sponsor) non ha fatto una scelta vincente. Ha rischiato inutilmente di perdere un’elezione che si poteva solo vincere.

Ma.

Ma c’è un ma. Il fattore umano.
Giuseppe Sala non è un politico. E nessuno poteva sapere con certezza come avrebbe giocato il ruolo del politico. Certamente chi lo ha designato pensava di rassicurare i moderati (che non esistono) e di garantire i grandi interessi, soprattutto immobiliari e bancari.
E ancora oggi nessuno saprà come sarà il sindaco Giuseppe Sala. Quello che però è apparso chiaro in queste settimane è che l’uomo è in grado di ascoltare e di imparare. Doti rare tra maschi adulti. Da domenica ha speso parole importanti sul ruolo del collettivo (“in tanti anni non mi ero mai reso conto dell’importanza degli altri”), sulle priorità programmatiche (periferie e politiche ambientali). Ha parlato di sogno e di dignità per tutti. Ha detto qualcosa di sinistra.
Io aspettative non ne avevo. E non ne ho.
Ma spero tanto di potermi sbagliare e di farmi stupire.

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dati per il grafico tratti da wikipedia.it

TAG: #Milano2016, amministrative Milano 2016
CAT: Milano

2 Commenti

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  1. franco-pecchio 8 anni fa

    eh si Gianluca, è esattamente come dici. ma chi deve aprire gli occhi è il PD meneghino, che deve imparare a rinnovarsi ed ascoltare di più e meglio il territorio. Le municipalità di zona sono lì a dimostrare che non si è fatto quello che sarebbe stato facile: dialogare e informare su un progetto che è sempre stato un po’ in sordina rispetto alla precedente amministrazione: come ben hai detto in chiusura ascoltare e imparare (aggiungo mediare), spero sia questa l’impostazione, vedremo i fatti. Ciao

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  2. massimo-matteoli 8 anni fa

    La cosa paradossale è che Sala ha vinto perchè non è riuscito a fare il “partito della nazione”. Doveva sfondare al centro ed invece a Milano il centro (compresi glui alfaniani) si è ricompattato con la destra ed ha sfidatio alla pari il candidato del PD che, obtorto collo, è stato spinto dalle necessità politiche a fare “il sinistro”, almeno come schieramento.
    Alla fine la sconfitta politica del disegno originario ha portato fortuna a Sala, favorendo il voto utile di Rizzo e di tanti elettori di sinsitra che non se la sono sentita di consegnare la città agli amici dei diffusori delle opere di Hitler.
    A Torino, invece, il buon Fassino da bravo discepolo post-comunista del renzismo si è applicato a fondo riuscendo a dividere e frantumare il centro destra.
    In questo modo, però, si è scavato la fossa (elettorale) con le sue mani favorendo l’uscita a sinistra di una parte significativa del suo elettorato potenziale e l’arrivo dei 5 Stelle al ballottaggio.
    Il “partito della nazione” ha divorato così i suoi figli migliori.

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