Buon viaggio, David

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16 Gennaio 2016

There’s a starman waiting in the sky
Hed like to come and meet us
But he thinks he’d blow our minds

 

Difficile immaginarlo oggi che il rock ‘n’ roll è diventato genere marginale o, nella peggiore delle ipotesi, stile di pantaloni e frangette e tatuaggi. C’è stato però un periodo, finito appena l’altroieri, in cui il pop – cioè la ‘popular music’ – era dominato dal rock ‘n’ roll, e in quel gran calderone potevano – e dovevano – confluire tante visioni, aspirazioni e talenti diversi. Allora accadeva che un ragazzino di nome Keith Richards folgorato dal blues di Chicago fondasse i Rolling Stones, o che Francis Zappa, giovane fan di Edgard Varèse e Stravinskij si inventasse le Mothers of Inventions, o appunto che un grande appassionato di musical come David Jones, poi David Bowie, iniziasse a creare i suoi personaggi, da Ziggy in avanti.

Qui sta una delle chiavi per capire l’opera-vita di questo ragazzo della working class nativo di Brixton, London SW, così si spiega quel camaleontismo che non è semplicemente la periodica riverniciatura della popstar coi colori di moda, ma vera e propria creazione drammaturgica. Tutto il lavoro di Bowie è teatrale, ben al di là della “teatralità” tipica di tanto pop britannico: «avevo in mente di scrivere musical per i teatri del West End e di Broadway, non mi sono mai sentito un performer», dirà in varie interviste recenti, «I didn’t feel at ease on stage, ever».

Si stenta a crederlo. Eppure è così, Bowie ha fatto di necessità virtù: se nessuno è in grado di impersonare Ziggy polvere-di-stelle, sarà il suo stesso creatore a farlo, vincendo le sue stesse timidezze. Se al posto di un musical ne usciranno un album e un tour, andrà bene ugualmente, perché forse il gran teatro del rock ‘n’ roll è lo spazio adatto per quel tipo di cose. E pazienza se la famiglia Orwell negherà i diritti per un'”opera rock” tratta da 1984, perché da quel rifiuto nascerà Diamond Dogs.

Alla fine dei  ’70, Bowie si emancipa dalle sue fiammeggianti personae glam e si concentra sul songwriting, senza però abbandonare mai la recitazione, in scena o sul grande schermo, come interprete e come autore. Dall’uomo che cadde sulla terra di Nic Roeg al musical Lazarus, dall’interpretazione di John Merrick nella versione teatrale di The Elephant Man al divertito cameo in Zoolander. Quando sei diventato un’istituzione, un’industria e un marchio quotati a Wall Street e un oggetto di mostre, ti puoi permettere di tutto e non devi dimostrare niente a nessuno.

L’amore per la messa in scena spiega però soltanto a metà la grandezza di Bowie, che è stato uno degli orecchi più raffinati degli ultimi cinquant’anni, contraddistinto da una rara curiosità. Nella sua irrequietezza creativa, Bowie era affamato di musica, arti visive e letteratura in egual misura e tutto concorreva a creare ed arricchire il suo lavoro. Lo prova il fatto di aver attraversato mezzo secolo di storia del pop riuscendo sempre a risultare almeno attuale, non limitandosi a scimmiottare gli stili e i generi del momento, ma reinventandoli sempre a sua immagine, rendendoli funzionali ai suoi progetti, quando non inventandoli di sana pianta.

Dagli esordi che richiamano il vaudeville all’hard glam di Ziggy, dal “plastic soul” del Duca Bianco (periodo Station To Station, e non Let’s Dance come ho sentito dire da David Zard in uno dei tristissimi e ridicoli “speciali” della nostra tv di Stato!) alla straordinaria trilogia berlinese Low-Heroes-Lodger, tra sperimentazione sonora e grandi invenzioni melodiche, Bowie ha sempre lasciato un segno forte sul sentiero del rock. L’ha fatto in vita e, possiamo dirlo, anche in morte.

David Bowie è ricorso all’eutanasia?  Confesso che l’ipotesi giornalistica di un suicidio assistito come «ultimo gesto artistico» inizialmente mi ha lasciato perplesso, ma è tra gli altri lo stesso Tony Visconti a dirci che «his death was no different from his life, a work of art» – il che può ricordare Debord (“l’arte come costruzione della propria stessa vita”). Blackstar in questo senso potrebbe essere ascoltato come l’ultima, definitiva parola di un artista rispetto al tema della morte. O forse no. Rimane il fatto che si tratta di un disco bellissimo. Lo ascolteremo e riascolteremo con attenzione – e, vorrei dire, con cautela – assieme agli altri ventisei che David ci ha lasciato durante il suo magnifico passaggio sul pianeta Terra.

La foto in copertina è di Jérôme Coppée.

TAG: david bowie, pop, rockandroll
CAT: Musica, Teatro

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