La condanna degli ex vertici Alitalia e la politica che decide e non paga mai

28 Settembre 2015

Otto anni e otto mesi a Cimoli, a capo di Alitalia dal 2004 al 2007, cinque anni al suo predecessore Mengozzi, in sella dal 2001, rispettivamente sei anni e mezzo di reclusione e sei anni a Pierluigi Ceschia e a Gabriele Spazzadeschi, a capo della finanza.

Giustizia è fatta per il crac Alitalia, si dovrebbe pensare, ma non è così. La compagnia di bandiera è stata una delle tante società IRI in perdita per decenni, i cui bilanci venivano raddrizzati annualmente dai soldi dei contribuenti o meglio facendo nuovi debiti. Erano gli anni in cui persino ENI perdeva e le partecipazioni statali erano vacche da mungere per interessi personali, politici o sindacali.

A metà degli anni ’90 la svolta, sulla falsariga della privatizzazione thatcheriana, che aveva costretto British Airways nei vincoli di un bilancio normale, che prevedesse utili. L’Unione Europea ha liberalizzato il mercato interno e consentito che gli Stati intervenissero una volta soltanto per raddrizzare le proprie storte compagnie aeree.

L’Italia, terra della flessibilità interpretata sempre come più deficit e delle regole piegate per cambiare tutto affinché non cambiasse niente, ha pensato che con qualche escamotage avrebbe potuto continuare come prima, anzi più di prima perché il mercato liberalizzato voleva dire ancora più perdite per il brontosauro statale. Romano Prodi aveva giocato la carta della fusione con l’olandese KLM, che aveva creato il più grosso vettore europeo, ma l’operazione era saltata tra il giubilo dei concorrenti europei e quello di mezza Italia, appena arrivato a Palazzo Chigi D’Alema.

Mengozzi è stato il poco brillante autore della devastante strategia di ritirarsi dal mercato dei voli intercontinentali, che unico riesce a dare respiro ai vettori tradizionali, per cedere quei passeggeri all’Air France in cambio di un pugno di mosche e infatti ha ricevuto la Legion d’Onore dai Francesi. Alitalia ha perseguito quella strategia sbagliata anche dopo la privatizzazione, basata sulla fusione con il concorrente interno AirOne mentre il mercato nazionale finiva in mano all’Alta Velocità e alle low cost. Cimoli era stato spostato dalle ferrovie agli aerei proprio mentre c’erano da costruire i binari veloci.

Nel frattempo Alitalia perdeva e la Repubblica Italiana ricorreva a tutti i mezzi per far arrivare nelle sue casse i soldi necessari a tappare i buchi, aggirando il divieto europeo. Obbligazioni emesse a piazza Affari, i cosiddetti “Mengozzi bond”, poi con la privatizzazione i capitani coraggiosi di Colaninno, poi le Poste e le banche con gli Arabi di Etihad.

A quale scopo? Ufficialmente per evitare che l’Italia, perdendo la sua linea aerea, rimanesse isolata, ma meno di un passeggero su sei vola con Alitalia, in realtà per mantenere in vita la cuccagna fatta di tanti contratti di fornitura discutibili, di controllo dei costi evanescente, di tanti dipendenti strafottenti e straprotetti anche ora con una Cassa Integrazione munifica che non ha uguali, di conseguenti voti per i politici romani eccetera.

Qual è la responsabilità dei manager condannati? Quella di aver perso soldi che, contrariamente alle aspettative, non si è riusciti a far arrivare ad Alitalia nelle quantità necessarie, stante il divieto europeo agli aiuti di Stato. Tutte le loro scelte o meglio le loro non scelte, il mancato taglio dei costi, una politica di sviluppo realistica e seria, sono state fatte per ossequiare la politica e gli stakeholder sindacali e locali. Forse è bene che qualcuno paghi per aver eseguito ordini sbagliati, potrebbe essere tornare utile in futuro, ma i condannati sono solo dei poveretti (poveretti finché si ignorano gli stipendi che incassavano) a cui è rimasto il cerino in mano e che hanno amministrato un’azienda pubblica come è o era norma nei decenni della dissipazione, del primato della politica e del sindacato corporativo onnipotente.

Innumerevoli sono le aziende pubbliche, le ASL, gli Enti Locali, le Università dove imperano il clientelismo e il primato della politica, Alitalia si è trovata travolta dalla volontà liberista di Bruxelles, che non lambisce settori che non sono in concorrenza internazionale, ma che non sono amministrati meglio.

Il rischio concreto della sentenza è di pensare che fosse solo colpa dei condannati, che invece sono stati solo le pedine più pagate di un sistema che non è mai cambiato. Meglio ricordare che quasi tutte le altre compagnie aeree europee si sono dolorosamente adattate al mercato, non sempre con pieno successo e solo quella greca è scomparsa, assorbita dal concorrente privato. In Italia abbiamo scelto di aggirare le regole e ora condanniamo quelli che le hanno aggirate per noi.

TAG: alitalia
CAT: Politiche comunitarie, trasporti (aerei, ferrovie, navi, bus)

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