Cuore occupato. Qual è lo spazio giusto per un figlio?

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23 Febbraio 2018

«La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza».
M. Recalcati

Un figlio è il futuro. È la vita che continua. Su un figlio il genitore proietta spesso le sue attese, vorrebbe vedere nel figlio la realizzazione delle proprie speranze. Ma proprio come il futuro, così la vita di un figlio non è sotto il nostro controllo. Per quanto possiamo impegnarci, il futuro ci sfugge. Molte volte il figlio non è esattamente come ci saremmo aspettati.

Un figlio però è anche la vita di cui prendersi cura. Un figlio ti chiede di distogliere l’attenzione da te stesso. È il modo in cui la vita ci costringe a uscire dal nostro egoismo. C’è un figlio in tutte le persone di cui siamo chiamati a prenderci cura. I figli sono le generazioni future a cui siamo chiamati a consegnare la nostra vita. Tutti lasciamo inevitabilmente un’eredità. E siamo responsabili di quello che stiamo lasciando a chi viene dopo di noi.

La Bibbia ci parla spesso dei rapporti tra genitori e figli. Abramo per esempio vive gran parte della sua vicenda all’interno della promessa di una discendenza. Quando però siamo stanchi di aspettare, quando le cose non prendono la piega che vorremmo, proviamo a costruirci le nostre soluzioni umane. Abramo prova a darsi un figlio, mettendo Dio fuori dalla sua vita. Abramo sente Dio come uno che non opera più nella sua vita. Imparerà dai suoi errori che Dio invece non dimentica la sua promessa.

Il figlio è il simbolo di ogni dono che viene dalle mani di Dio: Dio ci dice che la nostra vita non è finita, ma è illuminata dalla speranza. Ma quando Abramo riceve da Dio il figlio Isacco, prova a impadronirsene. Abramo vuole possedere il dono, vuole controllarlo, si attacca al figlio e non c’è più spazio per nessun altro nel suo cuore.

Per questo motivo, Dio chiede ad Abramo di rimettere ordine nel suo cuore. Moria è dunque il luogo della purificazione degli affetti.

Questa riflessione sul rapporto tra genitori e figli prosegue nella Bibbia, per esempio nella storia di Giacobbe. Giacobbe mostra un’evidente preferenza per il figlio Giuseppe, al punto da suscitare l’invidia degli altri fratelli che cercheranno di uccidere Giuseppe.

Anche Maria, la madre di Gesù, sarà chiamata a meditare sulla relazione con suo figlio. Quella spada profetizzata da Simeone è l’immagine di una distanza che Maria è chiamata ad accogliere, un distanza nella quale si realizza la sua libertà davanti alla missione del figlio. Diventare madre vuol dire permettere al figlio di abitare luoghi non previsti.

Attraverso queste immagini umane, la Bibbia ci permette di entrare nella contemplazione della relazione tra il Padre e il Figlio. La trasfigurazione è il momento del riconoscimento: questi è mio figlio, l’amato, ascoltatelo! Forse ognuno di noi, come figlio, vorrebbe sentirsi riconosciuto così dal padre. È l’amore che ci permette di venir fuori nella nostra identità più propria. L’amore fa emergere la nostra vera figura, quando ci sentiamo amati possiamo farci vedere al di là della figura: ci trans-figuriamo.

La trasfigurazione è dunque il momento in cui Gesù si rivela così com’è. La presenza di Mosè ed Elia conferma questa identità di Gesù: egli è il Messia atteso. Nella tradizione ebraica, infatti, Mosè ed Elia erano i due profeti che sarebbero ritornati all’avvento del Messia. Mosè ed Elia rappresentano inoltre l’insieme della Sacra Scrittura, quella che spesso nel Vangelo viene citata come “la Legge e i Profeti”. Mosè infatti era considerato l’autore del Pentateuco, che contiene anche la Legge data a Israele sul Sinai, Elia rappresenta il profeta per eccellenza.

Il Signore continua a trasfigurarsi nella nostra vita, continua a lasciarsi vedere così com’è. Sono i momenti della nostra vita spirituale in cui sentiamo la presenza autentica di Dio. Ma anche noi, come Pietro, restiamo confusi e vorremmo trattenere Dio per sempre, vorremmo fermare quei momenti, vorremmo costruire una capanna in cui rinchiudere la nostra esperienza di Dio. Ma Dio si sottrae, non si lascia intrappolare nei nostri schemi.

Siamo chiamati a restare in una nube che ci copre: anche il popolo d’Israele, nel deserto, era guidato da una nube. La nube protegge dalla luce accecante del sole, ma non ci permette di vedere distintamente. Così la nostra conoscenza di Dio non può essere mai diretta, ma ha bisogno sempre di una mediazione umana.

Anche noi siamo chiamati a scendere dalle esperienze profonde di Dio per incontrare l’umanità, in attesa di poterlo rivedere faccia a faccia, così com’è.

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Testo

Mc 9,1-12

Leggersi dentro

  • Come vivi la tua condizione di figlio?
  • Quali occasioni ti dai per ascoltare Gesù?

 

TAG: Abramo, figlio, II DOMENICA DI QUARESIMA, padre, paternità, TRASFIGURAZIONE
CAT: Religione, Teologia

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