Diciottenni al voto. La scuola dov’è?

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26 Febbraio 2018

Secondo un recente sondaggio di Demopolis per il Sole24Ore il 48% dei giovani tra i 18 e i 25 anni non andrà a votare. Il dato si inquadra in una più ampia disaffezione nei confronti della politica (o, forse, dei “politici”) confermata da altri due sondaggi pubblicati nelle scorse settimane. Quale la ragione di questa disaffezione? Sfiducia. Nei partiti, e nell’efficacia delle loro proposte per una generazione che si sente tagliata fuori. Sfiducia piuttosto disinformata (solo il 50% circa dei diciottenni, secondo l’ISTAT, si informa sulla politica almeno una volta la settimana, prevalentemente attraverso il tg) e nutrita (secondo un sondaggio dell’Istituto Piepoli per La Stampa) dalla convinzione che “i politici” facciano solo i propri interessi, in un contesto di diffusa corruttela (tema, quest’ultimo, sul quale i giovani risultano più sensibili rispetto al resto dell’opinione pubblica).

Non si tratta senz’altro di una novità per chi da anni fa l’insegnante alle superiori. Nel liceo di Milano dove insegno (un artistico) il comitato studentesco ha richiesto, in occasione della cogestione di quest’anno, un intervento orientativo dedicato agli studenti che, giunti alla maggiore età, il prossimo 4 marzo potranno recarsi alle urne per la prima volta. La necessità sorgeva da encomiabile senso di responsabilità unito a generale spaesamento quanto alla “cosa”. Per cosa si vota? Per chi? Perché?Diciottenni allo sbando… politico. Dopo ore e euro di scuola guida e due esami per conseguire l’agognata patente, eccoli totalmente sguarniti di fronte a un diverso compito di “guida”, che avvertono (quando lo avvertono) più delicato, più decisivo. Sicuramente più complicato. All’incontro ho contato tredici ragazzi, grosso modo inquadrabili nei risultati dei sondaggi cui ho fatto riferimento sopra, quasi tutti gravemente insufficienti quanto alle conoscenze di base di educazione civica (per forza, poveri cari, educazione civica non la fanno più, sostituita da “cittadinanza e costituzione”, singolare caso di materia senza cattedre né voti). Qualche giorno dopo, poi, in una quinta, alla domanda su quali istituzioni saremmo stati chiamati a rinnovare di lì a poco, la risposta è stata il silenzio. Qualche sorriso imbarazzato.

Raggelante. E del tutto sovrapponibile alla testimonianza contenuta nel bell’articolo di Maurizio Tucci, pubblicato su Arcipelago Milano lo scorso 13 febbraio, che così si conclude:

“La Politica – ragazzi – è tutto l’opposto di quello che vi abbiamo fatto vedere in questi terribili anni. Pensateci voi a farla rinascere dalle ceneri, a costruire nuovi stimoli e nuovi ideali. Pensateci voi, perché noi abbiamo fallito”.

Noi abbiamo fallito. Ma, noi chi? Noi insegnanti.

Ci ricordiamo (sappiamo) cosa sia la politica? Abbiamo capito che l’educazione ne è una parte integrante? Certo, non un’educazione “di parte”, ma animata dal desiderio di promuovere l’ethos della Costituzione. Quei valori contenuti nei primi undici articoli della Carta, che noi, per primi, dobbiamo proclamare, non solo a parole, ma soprattutto incarnandoli, sempre, in una credibile testimonianza. I ragazzi ci chiedono mappe, ma anche bussole, e noi, oltre al necessario senso critico, che passa per la sana pratica del dubbio, dobbiamo indicare anche un “nord magnetico”, che consenta loro di capire dove si trovano. Si trovano in un Paese che ha deciso cosa sia il bene e cosa il male. Bene è quello che sta scritto in quegli undici articoli e male il contrario. E il dodicesimo indica com’è fatta la bandiera di quella comunità che ci crede davvero. Noi insegnanti non possiamo essere relativisti, no. Se non ci crediamo abbiamo sbagliato mestiere. Se non ci crediamo più, diamo le dimissioni e andiamo a fare un lavoro in cui rischiamo di fare meno danni.

Chiarito questo, che è la base, proviamo a ripartire dai contenuti fondamentali: non solo dai fondamenti dell’educazione civica (cos’è il potere legislativo, si mangia? chi nomina i ministri?), ma anche dalla storia (siamo un Paese senza memoria perché la storia è, insieme, il prezzemolo e la Cenerentola dei curricula: si fa in poche ore settimanali e sorvolando su argomenti fondamentali, come il ruolo delle mafie, che non è indicato come obiettivo specifico di apprendimento in alcuna disciplina) e, soprattutto, dall’educazione alla partecipazione. Che non è (solo) l’attenzione e la proattività nel lavoro d’aula, e nemmeno la buona disposizione nell’accogliere le proposte della scuola (“è un po’ passivo in classe, ma fa il laboratorio di teatro”), ma anche, e soprattutto, la capacità di inserirsi responsabilmente nella vita della comunità scolastica attraverso il voto, l’impegno di rappresentanza (in consiglio di classe, d’istituto o in consulta provinciale) e la proposta.

Sì, sto parlando delle elezioni studentesche e della vita politica della scuola, piccola Città in cui imparare a esercitare la propria cittadinanza attiva.

Lo sappiamo bene, le elezioni (che si devono svolgere in tutti gli istituti superiori entro il 31 ottobre di ogni anno scolastico) sono una grande, burocratica, scocciatura: commissioni elettorali mal pagate per fare un lavoraccio; interi collegi docenti sbuffanti per le “ore perse”; ragazzi che si recano a votare spesso inconsapevoli.

Eppure le elezioni studentesche sono davvero una grande occasione per “imparare-facendo” che cosa sia la democrazia.

Gli studenti di oggi non sono più quelli della generazione di cui parlava Tucci (la sua), per i quali la normativa, che negli anni Settanta del Novecento introdusse la democrazia nella scuola, rappresentò lo strumento per canalizzare un diffuso desiderio di partecipazione. Questi sono i figli dei figli del “riflusso”, per i quali bisogna predisporre una sorta di “rianimazione” politica.

Allora perché non utilizzare gli spazi di partecipazione e rappresentanza previsti dalla normativa come un laboratorio per aiutare i ragazzi a costruire quelle “competenze di cittadinanza” che il Parlamento Europeo ci raccomanda? Perché non inventarsi progetti finalizzati a insegnare ai comitati studenteschi o alle assemblee dei delegati come si modera un’assemblea e come si scrive un verbale? Perché non insegnare loro a progettare insieme, mediando tra diversi interessi e sensibilità, una proposta politica sensata e fattibile, nello spirito della Costituzione, e come portarla avanti?

Fare “giocare” i ragazzi alla democrazia, dunque, per guidarli a capire come essa funzioni e come farla funzionare bene. Metterli nelle condizioni di godere di un cambiamento in meglio per la loro classe o il loro istituto, pensato e realizzato da loro, perché comprendano cosa sia il bene comune e imparino ad avere fiducia nella politica come strumento per realizzarlo (anche) nel Paese. Se questi diventano i nostri obiettivi per la formazione politica dei ragazzi, allora non abbiamo ancora fallito.

Siamo impreparati, certo (è un compito epocale), siamo stanchi, siamo mal pagati, siamo sballottati da una “riforma” all’altra, ma dobbiamo volare più alto, tirandoci su da soli “per il codino”, come il Barone di Münchhausen, altrimenti la Costituzione annega. E noi con lei.

TAG: cittadinanza, federico.ferri, politica, scuola
CAT: scuola

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