Trade experience: siamo tutti mercanti, lo dice pure la Doxa

12 Settembre 2016

Una recente ricerca della Doxa conferma quanto si può constatare frequentando e osservando il mondo dei mercatini dell’usato: siamo tutti mercanti. Ne avevo scritto a proposito di un libro sulla storia della catena di mercatini dell’usato in franchising Dimenticate la decrescita.

Qui di seguito un articolo pubblicato nel 2013 su retailwatch.it e ripreso da Occhio del riciclone nel suo Rapporto nazionale sul riutilizzo 2013.

Doxa Economia dell'usato

 

[…] Se vediamo crescere il numero di negozi dell’usato la ragione non è la crisi economica ma
l’evoluzione dei comportamenti di consumo e l’affermarsi di un modello di business ispirato a
eBay. Infatti, i negozi di usato che adottano il modello tradizionale, quello del rigattiere che recupera o
compra merce per poi rivenderla, non sono cresciuti nemmeno in questo momento di crisi,
sebbene garantiscano un ricavo certo e immediato.

I  negozi dell’usato che prosperano si ispirano ad eBay: i negozianti non comprano la merce, la gestiscono in conto vendita, la espongono nei propri spazi in cambio di una percentuale sul prezzo realizzato. Sono piattaforme fisiche mentre eBay è una piattaforma tecnologica. La maggiore leva del successo di questa formula è la sua dimensione ludica. Com’era già accaduto in passato con le aste di eBay.

Il ricavato dalla vendita di un oggetto di consumo (che secondo la teoria economica è per definizione senza valore residuo) è vissuto come una vincita alla lotteria: è gratificante e percepito come qualcosa di fuori dall’ordinario spesso non è risparmiato, ma al contrario è speso di nuovo.

In Italia ad aver colto quest’opportunità di business e averla trasformata in una realtà espressiva
sono stati i franchisor Mercatopoli con oltre 100 negozi affiliati e Mercatino con oltre 160 negozi
affiliati. Buona parte dei loro negozi sono specializzati nell’abbigliamento e nel casalingo con qualche
escursione nell’arredo.

I vantaggi di questa formula sono:
1. Il retailer non ha immobilizzazione finanziaria nello stock;
2. il cliente che spesso fornisce la merce cambia il modo di vedere il prodotto usato;
3. l’ampiezza e ritmo di rinnovamento dell’assortimento può competere con quello
leggendario di Zara.

Il risultato è che il cliente visita spesso il negozio e compra, sia a valore sia a volume, più di quanto
fornisce.

Dalla shopping experience (il piacere di comprare) alla trade experience (il piacere di mercanteggiare). I retailer che da anni parlano di shopping experience, di emozionare il cliente, si sono inventati costose raccolte punti, hanno organizzato tristi giochetti (gamification) e hanno spettacolarizzato la merce, finora non hanno ottenuto risultati, come dire, straordinari. I distributori come i produttori, non vogliono interagire con i propri clienti, vogliono spettatori passivi, la cui unica forma di partecipazione ammessa è l’acquisto. Avrebbero qualcosa da imparare dal modo in cui i clienti si divertono fuori dai loro negozi di merce nuova e scintillante.

Quale gioco è connaturato alla natura umana più dello scambio, da quello delle figurine in poi?
(Del calcio parleremo in un’altra occasione.) Ecco queste catene danno la possibilità di non essere
solo dei consumatori passivi, di poter fare solo shopping. Tra i clienti di questi negozi ci sono di
certo solo chi compra solamente oppure quelli che vendono, ma la gran parte dei clienti vendono
e comprano: fanno trading, commerciano, mercateggiano. La trade experience dei negozi dell’usato ci dice come coinvolgere il cliente, su come fidelizzarlo in modo chiaro e trasparente, senza contorcimenti verbali, parlando di soldi e di scambio.

Per passare dalla shopping experience passiva ad una trade experience partecipativa, il primo passo
per le Aziende è lasciare spazio ai proprio clienti. E visti le performance recenti non mancano i
metri quadri. Manca la volontà. Alcuni retailer hanno provato a coinvolgere in cliente dandogli la possibilità di comprare e vendere, di offrirgli un’esperienza di scambio. Ci ha provato anche Ikea con Hemma Second Hand (sono 2 anni e 8 mesi che un tizio cerca di vendere una vetrina bjursta).

Forse Ikea è una delle poche realtà distributive incompatibili con la trade experience, i suoi prodotti non sono fatti per invecchiare e mantenere un valore residuo. Il principale errore di queste esperienze è aver voluto limitare troppo la libertà delle persone. In alcuni casi si sono posti dei limiti arbitrari sul tipo di merce usata per paura che cannibalizzasse quella nuova. In altri il ricavato è in buoni sconto. Per capire quanto un buono sconto è apprezzato dai clienti chiedete in giro se le persone preferiscono Euro dieci in contanti o Euro 20 su una “selezione di prodotti scelti appositamente per loro”? Forse è il caso di essere meno timidi e di avere il coraggio di pronunciare la parola “usato” e di integrarlo nella vostra strategia. I vostri clienti lo fanno già. Comprano e vendono su eBay e in negozi specializzati più di quanto immaginiate. Dell’elettronica abbia
mo detto. Se poi hanno figli, sanno bene che in media un terzo degli abiti per neonati e bambini è usato. Infatti Mercatopoli ha sviluppato un’insegna dedicata a questo segmento: BabyBazar, trade di abbigliamento e accessori per l’infanzia. Se non sapete come giustificare la parola usato e avete le slide di powerpoint zeppe di Amazon, potete sempre sottolineare che Amazon propone molto spesso la possibilità di comprare dello stesso prodotto un esemplare usato. Se lo fa Amazon potete farlo anche voi.

Immagine di copertina di Luigi Torreggiani

TAG: abbigliamento, consumi, design, elettronica, informatica, modernariato, negozi, usato, vintage
CAT: Sharing economy

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