Addio Appelfeld, il sorriso e la memoria più forti dell’Olocausto

4 Gennaio 2018

(Si è spento stamane in Israele Aharon Appelfeld. Scrittore di fama mondiale, sopravvissuto all’Olocausto avrebbe compiuto 86 anni tra un mese e mezzo. Qui ripubblichiamo il resoconto di un incontro avvenuto alcuni anni fa, e pubblicato su Io Donna)

 

Ogni volta che Appelfeld racconta la propria vita – e l’ha fatto in una quarantina di libri –, chi lo ascolta è schiacciato dallo stupore, dallo strazio, dai sentimenti, dall’incredulità. È accaduto anche quando, a Torino Spiritualità, il pubblico è letteralmente ammutolito sentendo la storia del (bel) romanzo Il ragazzo che voleva dormire edito da Guanda. Appelfeld stesso è il filo conduttore della memoria perché nel 1941 i tedeschi invadono la Bucovina e il piccolo Erwin – che poi sarebbe lui – ha otto anni e mezzo, figlio unico di una famiglia di ebrei agiati e assimilati. In poche settimane quel bambino conosce il ghetto, vede uccidere dalle SS la madre e la nonna, finisce con il padre «in campo». Dall’indicibile scappa scavando la terra sotto il recinto. Nel bosco è adottato da una banda di delinquenti, «criminali veri, assassini e ladri», per un paio di mesi vive da una puttana al limitare della foresta, poi fugge ancora perché riconosciuto come ebreo. Incontra l’Armata Rossa e la segue, garzone di cucina, fino in Jugoslavia. A guerra finita si unisce a un gruppo di sopravvissuti ai lager e scende fino a Napoli. Sola “difesa”, in quegli anni, un sonno innaturale, assoluto, sorta di trance protettiva che gli permette, più o meno, di sopravvivere affettivamente tenendolo legato al suo mondo scomparso. Nel ’46, poco più che tredicenne, s’imbarca su una carretta del mare che parte per la Palestina: Erwin Appelfeld diventa Aharon Appelfeld, e la storia continua. La storia continua e a lui piace ripetere che «Dio è nei dettagli», così dando un senso a ogni singola parola, sia essa scritta su un libro o sussurrata (parla a voce assai bassa) seduti in poltrona davanti a un bicchiere d’acqua.

È un vecchio israeliano pelato, spiritoso, dallo sguardo dolcissimo e dall’eloquio lento e profondo, l’Aharon che spiega come il legame con quel mondo scomparso rimanga vivo in lui attraverso la madre, o meglio la lingua madre, e come madre e lingua madre siano in realtà la medesima cosa. «La mia madrelingua era il tedesco e l’ho parlato fino al ghetto e al campo, dopo, nel bosco, per non farmi scoprire ebreo usavo l’ucraino e un po’ di russo. Sono arrivato in Palestina senza istruzione, a casa avevo fatto la prima elementare… i miei erano rimasugli di lingua, e senza una lingua l’uomo è un invalido, resta ammalato per tutta la vita. Eppure sono stato fortunato perché, essendo io tabula rasa, l’ebraico ha potuto essere la mia prima lingua scritta». E usando quell’ebraico è diventato un grande scrittore. «Vero, ma sotto c’era la melodia della mia lingua madre. Quando ho iniziato a scrivere ho usato la voce di mia madre che era rimasta dentro di me. La sera lei mi leggeva storie prima che io andassi a dormire, e io ho messo insieme le voci che venivano dalla lingua di mia madre, ho cercato di unire quelle voci all’ebraico, dando alla lingua della Bibbia i colori della mia infanzia».

Guardo la moglie Judith, se ne sta in disparte. Le donne della sua vita? Appelfeld sorride: «Senza ricorrere a Freud, posso garantirle che tutte le donne della mia vita sono state modellate con le forme di mia madre, una donna bella e piena di poesia». Il femminile, al mondo, conta? «Per me è difficile generalizzare, rispondere a domande ipotetiche non mi piace. Se posso utilizzare il mio intuito, dico che nel femminile c’è qualcosa di più dolce, di più morbido… sa, mia madre è stata uccisa insieme a mia nonna quando avevo otto anni e mezzo e io la sento ancora oggi, ancora oggi ho sensazioni di lei, so quindi quello che dico».

Incredibile: Appelfeld non comunica affatto cupezza, anzi regala speranza. «Ho incontrato individui, uomini e donne, che sono stati generosi con me, che mi hanno dato un pezzo di pane, che mi hanno donato un sorriso o una parola buona… devo dire più uomini che donne… È per le persone buone che ho incontrato, persone straordinarie, ebrei e non ebrei, che sono rimasto un uomo. È grazie a loro che non ho perso fiducia nell’umanità».

TAG: Aharon Appelfeld
CAT: Storia

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