Oggi a Budapest va in scena l’Europa che non c’è e i suoi abitanti

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2 Ottobre 2016

Comunque vada a finire, stasera in Ungheria, è bene provare a non dimenticare lo scenario in cui si colloca il braccio di ferro che l’oppone alle decisione della UE in tema di accoglienza. Nel giorno in cui Viktor Orbán sfida l’Europa e si propone come leader carismatico dell’«altra Europa», il primo punto è non dimenticare mai la storia lunga di un paese. In breve quando nelle prossime settimane ricorderemo le doglie della libertà a Budapest, il senso di frustrazione per una libertà negata.

Non è facile mettere insieme l’immagine dela maggioranza dell’opinione pubblica di oggi in Ungheria, con le folle che nell’autunno 1956 e poi di nuovo trent’anni dopo, tra 1986 e 1989, si muovevano nelle strade per chiedere maggiore libertà. Nel secondo caso, molti dei protagonisti di allora sono tra i soggetti che sono i protagonisti di oggi.

All’inizio di quel percorso, a metà degli anni ’80 quella operazione sembrava garantita dal ritrovare una memoria del proprio passato che testimoniava della propria voglia di libertà. Quel processo di nuova memoria aveva tuttavia un punto problematico: avveniva attraverso una retorica della’autocommiserazione, e raccontava del proprio passato violato, come vittimizzazione.

In breve la costruzione del proprio passato e il recupero della propria personalità assumeva le vesti di un riscatto in cui il resto del mondo doveva osservare la propria ritrovata libertà. Un paese raccontava se stesso come “liberazione”, come eliminazione dell’oppressione subita, ma non parlava la lingua della libertà che vuol dire reciprocità, ricerca paziente del rapporto tra individuo e società.

A circa 30 anni da quel 1989, il tema di nuovo è la convinzione di una comunità minacciata che risponde riscoprendo una visione esasperata della propria identità e che contemporaneamente avverte il mondo esterno come “nemico”, come avversario irreducibile del proprio mondo che si vuole difendere e non veder soccombere.

Dietro a questa metamorfosi stanno molti elementi che danno forma alla figura dela vittima, alla retorica che accompagna il vissuto di chi vittima è stato e dunque si racconta e si presenta non solo come detentore di un’offesa che va riparata, ma anche di un diritto che va riconosciuto. Un diritto che si esercita, una volta che non si è più vittime, proponendo politiche, difendendo una visione del mondo che è parente, se non omologo con l’oppressione subita.

Una visione che è l’insieme di quattro condizioni, culturali ed emotive. Ovvero:

  1. Mancanza di una capacità di produrre orientamenti etici cui seguano atti politici adeguati alla situazione presente;
  2. Primato fondato sul bisogno di primeggiare nel dolore, una visione che annulla il dolore altrui per mettere al centro esclusivamente il proprio;
  3. Eredità laddove la condizione di presentarsi come vittima si fa tanto più ricattatoria mano a mano che scompaiono i suoi titolari effettivi;
  4. Impunità, laddove colui che si presenta come erede della vittima chiede per se stesso un certificato di incensurabilità e dunque di assoluta libertà per sé.

Un processo che non riguarda solo l’Ungheria, che è diffuso in Polonia, e che tocca tutti quelle aree dell’ex cortina di ferro che avvertono pesante il respiro di Putin alle proprie frontiere. Questo per dire l’angoscia che quelle società vivono, non per scusarle, ma solo per dire che a quel panico, occorre rispondere in termini di politica o di visione politica e non con una dinamica sanzionatoria. Anche questo un dato che non è moneta corrente nell’Europa che ancora non  c’è.

TAG: Viktor Orbán
CAT: Storia

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