Discesa nell’abisso di dolore in “Lunga giornata verso la notte”

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16 Febbraio 2018

Dopo la messa in scena di “Lo zoo di vetro” di T.Williams e “Chi ha paura di Virginia Woolf” di E. Albee, il regista napoletano Arturo Cirillo conclude la trilogia che pone i cardini della drammaturgia americana contemporanea di  metà novecento con “Lunga giornata verso la notte” di Eugene O’ Neill. Premio Pulitzer, egli si ispira al realismo ibseniano in quello che è la sua opera più autobiografica.

Il dramma, che è stato in scena al Teatro Nuovo di Napoli, si svolge nell’arco di una sola giornata nella casa di campagna nel Connecticut e, come sostiene Cirillo, regista ed interprete con Milva Marigliano, Rosario Lisma e Riccardo Buffonini, ha  per protagonista la famiglia, o per meglio dire, il fallimento esistenziale di ciascuno dei membri che la compongono.

Assistiamo ad una danza circolare fatta di dialoghi veloci e verbosi, di entrate e uscite in scena dei personaggi con la loro storia così diversa da quella che raccontano  e si raccontano, ciascuno  con la propria solitudine in lotta con  i propri spettri di verità. Una verità che, in quanto familiare, è legata a doppio filo a quella dell’altro, oggetto di cura, e d’amore così come di rancore e capro espiatorio.

Ciascuno è alle prese con le sue debolezze che trovano sfogo nell’assuefazione e continuo bisogno di morfina  nel caso della madre, Mary, appena uscita da una clinica per disintossicarsi ma con scarso successo, e dell’alcool a cui tutti e tre le figure  maschili fanno ricorso per illuminare i momenti bui della loro esistenza. Una giornata  davvero lunga tanto da scavare  l’io tormentato di ciascuno che nel suo voler essere altro di fronte all’altro, nascondendo le pene che la verità sa elargire, finisce per essere grottesco, misero, pietoso.

Cuore della casa è un salone in cui  ci si incontra, più spesso ci si scontra, dando  corpo a dialoghi che indugiano sulla preoccupazione per lo stato di salute della madre e del figlio più piccolo, Edmund, creatura sensibile, imbarcatosi come marinaio e ritornato dopo un lungo viaggio in precarie condizioni di salute. Ciascuno, nell’intento di nascondere all’altro la verità, porta avanti  tesi strampalate che, però,  il figlio maggiore James Jr, lucidissimo ubriacone, riporterà sul giusto binario.

Intorno al salone, in una dimensione chiaramente metateatrale, i personaggi si siedono dinanzi a specchi da camerino, solo qui, paradossalmente lontani dalla finzione, ciascuno toltasi la propria maschera riesce ad essere se stesso, a braccetto col suo personale fallimento.

Sembra qui ripetersi il compito che  l’ oracolo di Delfi affidava a ciascuno come compito della sua vita, un compito infinito perché conoscere una versione di sé può essere un modo usato per difendersi dalla conoscenza di altre versioni di sé.

Il fallimento familiare è quello che ingloba tutti i singoli fallimenti individuali, una rete che attanaglia e  le cui maglie vengono sempre più allargate dall’autore che ci consente, attraverso i suoi scandagli psicologici, di penetrare a fondo nella spirale di pensieri non rivelati e moventi che hanno portato ciascun personaggio ad agire in modo disastroso.

Disastroso il senso di colpa della donna  per la perdita di un figlio di cui sente di non essersi presa cura per seguire il marito, attore girovago che le ha offerto una vita spesa negli alberghi. Disastroso il senso di perdita mai colmato dalla nascita dell’ultimo figlio che ha velleità da poeta e finisce per imbarcarsi cercando di sbarcare il lunario per sfuggire all’atmosfera familiare o forse  per fare esperienza. Disastroso il tentativo del padre, James, attore ormai sul viale del tramonto, di aver voluto che suo figlio maggiore seguisse le sue orme : eseguito come un mestiere qualunque solo per compiacere il genitore, in un’ alternarsi di finzione e realtà, James Jr si ridurrà ad affogare nell’alcool e nei bordelli quello che riesce a guadagnare.

In verità, questa lunga giornata non vede mai luce, c’ è, invece, sempre un’ atmosfera  lugubre resa in scena dal fatto che per evitare un eccessivo consumo, il padre tiene accese solo qualche lampadina svitando le altre dal lampadario. Le uniche lampade che si accendono per intero sono quelle degli specchi da camerino, quelle che consentono di vedersi chiaramente.

La menzogna umana, man mano che il dramma si dipana, viene portata alla luce e partecipata allo spettatore il quale verrà a sapere che l’avarizia del padre, che ha retaggi in traumi infantili, lo ha condotto  a risparmiare sulla scelta del dottore che ha prescritto il “farmaco”  creatore della dipendenza alla moglie.

La stessa avarizia che porterà a dire al dottore che ha in cura il figlio, di prescrivere le cure migliori compatibilmente ai limiti delle sue possibilità economiche.

Questo  viaggio  dura più di una giornata, è un viaggio che attraversa la vita dei protagonisti in un tempo sospeso in cui  tutti sono disillusi, trascinati, invischiati in un malessere psicologico quanto fisico. I personaggi sembrano rincorrersi per confrontarsi, ma finiscono inevitabilmente per scontrarsi cosicché solidarietà ed egoismo, dolcezza ed odio si alternano incessantemente sulla scena.

Rispetto ad una vita piena di sfide e sforzi per affermarsi, perciò, neppure l’amore resta come spazio per essere veramente se stessi. Infatti, lungi dall’essere l’ unico ricettacolo di senso, l’amore spinge i personaggi a cercarsi, a  toccarsi per stabilire un contatto e una comunicazione che, invece, si frantuma nella notte dell’indifferenziato da cui un giorno si è emersi sperimentando i limiti dell’uomo. E così il toccarsi sempre le mani di Mary, quelle che un tempo erano designate a fare la pianista, la linea perduta, l’ossessione per l’acconciatura ed il gesto reiterato di pettinarsi i capelli, quasi si potessero  sciogliere tutti i nodi che si porta dentro, servono  a rivendicare una dimensione di realtà successiva al naufragio dei sogni da cui si è svegliata.

L’amore porta con sé le tinte della gelosia, il desiderio di essere amati almeno più degli altri se non in modo esclusivo, e così dichiarazioni di affetto e  frasi piene di accondiscendenza sono bruscamente interrotte da insulti, manifestazioni di disprezzo, offese, indignazione.

I personaggi danno vita ad un dramma realistico, non si difendono dalle disillusioni, l’alcool dà loro una chiara percezione delle situazioni . Si apre l’abisso in cui si perdono il controllo, le buone maniere, il dominio di sé perché invasi, invischiati, attraversati, esposti alla verità. Ogni inciampo altro non è che un  atto mancato di una vita diversa: la musica per la madre, la poesia per il figlio minore, il teatro per il padre ed il figlio maggiore

Molti sono i parallelismi col testo di Williams: il rimorso, la chiusura nelle proprie illusioni, il ricorso alla poesia, il riferimento alla finzione cinematografica (nell’opera di T. Williams) e teatrale, ma soprattutto la verità che trionfa sulla finzione, evidente quando Tom, protagonista e narratore in “Lo zoo di vetro” , rivendica il suo essere altro  dal prestigiatore che vende illusioni in quanto  propinatore di verità dietro la maschera dell’ illusione

La drammaturgia di Cirillo estremamente viva, emotiva, vibrante, pare suggerire che i nostri sentimenti non sono chiari come le nostre idee e sembra quasi  richiamarsi  a T.Mann che ci avvertiva che “il sintomo della malattia è un travestimento dell’attività amorosa perché ogni malattia è una metamorfosi dell’amore”.

 

TAG: Cultura
CAT: Teatro

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