Qualcuno volò sul nido del cuculo: la follia nella rielaborazione di De Giovani

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23 Marzo 2018

Problematizzare idee spesso  precostituite per ragioni culturali, propagandistiche e scardinare dettati ipnotici che non ammettono obiezioni, è quanto ci chiede oggi la società competitiva, ma quante di queste idee sono davvero accettabili senza che vi si apponga lo stigma della devianza?

Matto da legare, è un’ espressione ormai   invalsa nel linguaggio comune per indicare metaforicamente un comportamento fuori dallo schema. Eppure non è trascorso molto tempo da quando tutte le forme di devianza venivano catalogate  come malattie  mentali e,  diversamente da quelle del corpo, venivano trattate come un unicum indistinto, mondo da tenere relegato in un manicomio.

Questo uno dei temi principali che sottende il  romanzo di Ken Kesey, conosciuto al grande pubblico  ed entrato nella storia del cinema grazie alla trasposizione cinematografica  di Milos Forman, “Qualcuno volò sul nido de cuculo” che, dopo quattro anni di tournèe e soldout nei più prestigiosi teatri italiani, torna al Teatro Bellini con la stessa forza e la stessa capacità di commuovere, indignare ed emozionare. Uno spettacolo di Alessandro Gassman con Daniele Russo ed Elisabetta Valgoi e  contestualizzato sia cronologicamente che geograficamente secondo  la rielaborazione dello scrittore Maurizio De Giovanni

Dario Danise  è il Jack Nicolson  napoletano, il saltimbanco e motore dell’azione, caratterizzato come un tipico scugnizzo: furbo, accattivante, sfacciato, divertente, ma fondamentalmente un buono, trasudante d’umanità dietro una maschera di strafottenza e che non tarderà per questo a diventare un leader.

La musica country viene rimpiazzata dal refrain della mitica “ Rumore” (uno dei più grandi successi di Raffaella Carrà che fece da apripista alla disco music all’italiana), forse metafora dello stato psichico dei pazienti; la provincia americana lascia spazio ad un territorio in cui l’ansia è pane quotidiano: Aversa, in provincia di Napoli, luogo in cui si trova  l’ospedale psichiatrico. Il tempo, invece,  è quello in cui l’Italia esultava vincendo un mondiale, come scandito dall’immagine di Tardelli calata  sulla scena. É, soprattutto, però, un tempo mitico perché ripropone un confitto sempre universale: quello tra l’obbedienza alle regole a volte ottuse ed ingiuste e il desiderio dell’individuo di infrangerle.

L’arrivo del nuovo paziente, da tenere sotto osservazione per diagnosticare la sua  malattia che si sospetta sia solo simulata, è la molla che innesca la riflessione su un altro tema  cruciale: quello  del trattamento della malattia scandita solo da rigida disciplina, orari inflessibili nella somministrazione di pillole e trattamenti, della coercizione e annullamento della volontà

Ribelle per natura e perché la vita l’ha destinato alla reclusione in un orfanotrofio sin dalla tenera età, il messaggio che Dario  Dalise cerca di diffondere all’interno del manicomio è  quello di  non accettare dogmaticamente le idee come una preghiera o un mantra da recitare, rifiutare l’atteggiamento di colui che, seduto su uno scanno in un tribunale, deve limitarsi a rispondere affermando, confermando o negando.

Le sue idee saranno contagio per anime che scontano una detenzione ancor più dura di quella del carcere a cui lui stesso era destinato, in quanto anime fragili che quella reclusione l’hanno scelta volontariamente e che un istituto psichiatrico ha trattato sedimentando la loro vulnerabilità, rendendole inerti.

L’ intento di risvegliare i pazienti reclusi  dalla quiete e dall’acquiescenza sottende, quindi,  l’appassionato battaglia di Dalise che, a metà tra il  professor keating ed un moderno Don Chisciotte, si fa  paladino di una  goliardica battaglia inquisitoria nei confronti delle aberrazioni della natura umana delle persone ritenute sane

Tra serio e faceto, sul filo di una tragicomica ironia, l’intera rappresentazione spinge lo spettatore a porsi il continuo interrogativo sulla   misura in cui  le nostre idee   corrispondono ad un’ autentica adesione o al sonno della ragione

Se per Goya il sonno della ragione genera mostri è altrettanto vero, però, che Icaro pagò a caro prezzo la sua sfida al limite umano che gli imponeva una visione puramente terrena, pagò caro anche il ribelle Lucifero che rivendica la  libertà di scelta del proprio destino preferendo il comando nelle tenebre alla sottomissione. Lo stesso  dottor Frankenstein, negando i confini posti all’esistenza, diventerà artefice della creazione di un mostro quando  infuse vita a  materia inanimata.

Se la diversità fa paura, la paura del sentirsi diverso, non accettato, è quella che  a volte attanaglia l’essere umano; e così Ramon, un  gigante che si finge sordomuto allo stato catatonico e che  rievoca per dimensioni e movenze sgraziate proprio Frankeinstein, si sente piccolissimo, non in grado di crescere ed affrontare i suoi timori, la sua reclusione all’interno del manicomio corrisponde alla sua incapacità di stare fuori.

Ramon, trasfigurato dalla rilettura di De Giovanni, non è più il pellerossa, ma  un profugo che cerca salvezza ed attraversa il mare e che, abbandonando la sua terra, paradossalmente si voterà ad un esilio volontario

Qualsiasi mente, però, non tollera gabbie, sconfina con la fantasia, crea mondi diversi.  Accade, perciò, che  in quel susseguirsi di asfittiche  regole per assecondare l’austero regolamento, il divieto di guardare la finale del mondiale  viene superato dalla forza dell’immaginazione attraverso cui i più deboli riescono infine a rivendicare il loro diritto di  essere persone, di esprimere liberamente le proprie passioni  e  necessità  contro l’austero ordine imposto dalla suora, garante della più cupa delle discipline a dispetto del suo nome : Lucia.

Il senso di appartenenza, di amicizia, di solidarietà, di cui suo malgrado Dalise si farà promotore  e che corrisponderà al suo percorso interiore di essere umano alla ricerca di un senso profondo dell’esistenza che lo riscatti da una vita sregolata fatta di espedienti, si infrangerà contro il meccanismo repressivo di una casa in cui la cura non conosce indulgenza. E’ la troppa indulgenza, secondo suor Lucia, ad aver determinato i mali di cui i degenti sono vittime, motivo per cui  la speranza di poter assumere il controllo della propria vita, liberi dalle gabbie delle  paure, verrà recisa con l’induzione della lobotomia.

Ma come legge di natura, nessuna idea rivoluzionaria  può essere soffocata a lungo, soprattutto se nata da sofferenza e scandagli della coscienza; l’ urlo profondamente umano si fa denuncia sociale  nei confronti di uno stato  incapace di trattare il disagio se non sottraendo la dimensione della misericordiosa  pietas.

Infine, il moto di esultanza per la rivalsa di Ramon è accompagnata da più di un interrogativo: la coercizione senza una naturale accettazione e condivisione garantisce davvero la libertà o, come già la   cura “Ludovico” in “Arancia meccanica” aveva mostrato, è fallimentare?

Nella mitizzazione del monito   “stay hungry stay foolish”  quanta di questa  sana pazzia il mondo è capace di accettare senza che una cattiva assimilazione non provochi un moto di rigurgito?

 

 

 

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CAT: Teatro

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