“Sette minuti”, l’urlo soffocato di un’umanità che muore

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7 Luglio 2016

Avere i minuti contati. E’ quanto accade a tre palestinesi fuggiti dai campi profughi che, sperando in una vita  migliore, cercano di arrivare in Kuwait. Dopo un’ iniziale reticenza, si accordano con l’ autista  per attraversare il deserto iracheno stipati in un’ autocisterna vuota per poter così  eludere la sorveglianza

 

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Sette sono i minuti che li divide dalla morte. Un viaggio  al limite della sopravvivenza dove sotto il sole infuocato vengono messe a dura prova la capacità d resistenza del corpo, martoriato, umiliato, in condizione di asfissia. Così come della mente che deve accettare la sfida di dover resistere a condizioni  disumane  per realizzare l’unico disperato tentativo che potrebbe condurli verso un futuro meno amaro

Questo è quanto racconta Luisa Guarro in “Sette minuti”, spettacolo da lei scritto e diretto,  liberamente ispirato  al romanzo  “Uomini sotto il sole” di Ghassan Kanafani, scrittore e promotore della resistenza palestinese. La rilettura teatrale è un racconto asciutto, diretto, nudo, come i corpi costipati dentro la cisterna. Fisico, che al tempo stesso attanaglia l’anima.

Diretto  con uno straordinario senso della misura ed interpretato in modo realistico senza nulla concedere alla demagogia e alla retorica. Come sottolinea l’autrice, non ci sono analisi sofisticate nel  dramma narrato, la riflessione è rimandata all’osservatore che si trova dinanzi all’uomo che, lontano da  speculazioni metafisiche, in situazione estreme e  di scelte obbligate, è scoperto, senza orpelli, con i suoi  bisogni primari  da soddisfare: la fame, la sete , respirare.

Oltre ai tre profughi, altro protagonista in scena, quasi antagonista, è un sole a cui resistere, un sole che non darà tregua ai tre uomini arsi nel corpo, infiammati nell’animo.

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C’è poi il deserto, metafora esistenziale di un destino già segnato fatto di solitudine, indifferenza, morte. Un deserto che  ci riporta alla mente “La Terra Desolata” di Eliot, la cui  arida pietra non conosce suono d’acqua. L’odore del terriccio umido sentito da Abu Kais , uno dei tre profughi, è, infatti, solo frutto della sua fantasia poiché  qui  non c’è  neppure “ roccia rossa a donare la sua  ombra”.

La narrazione del terribile viaggio si conclude con la morte dei tre uomini  in quanto il coperchio della cisterna non viene aperto per più di  sette minuti  stimati come il limite oltre il quale la resistenza all’asfissia sarebbe stata impossibile.

Si conclude  soprattutto con un interrogativo che Abu Kais si pone e ci pone: “Perché non hanno bussato alle pareti della cisterna ribellandosi alla morte?”  Una domanda dalla risposta quasi scontata: uomini inermi non possono opporsi alla sconfitta , la reazione del popolo palestinese è stata vana e inadeguata per l’eccessiva disparità delle forze contrapposte
E’ una domanda, però, che rende il dramma dei tre palestinesi  di respiro più vasto perché riguarda l’umanità tutta. Sia che tocchi il dramma del  popolo palestinese che di  quelli che fuggono dalle guerre in atto nel proprio paese trovando nel Mediterraneo una fossa comune, la condizione  esasperata dei tre fuggiaschi è quella in cui si trova, in realtà, ogni uomo: l’impotenza assoluta.
Superando la contingenza del fatto narrato, quanto rappresentato in “Sette minuti” è, perciò, espressione di un dramma cosmico, di una crisi insita nella condizione umana. È  allo stesso tempo un grido di denuncia contro la barbarie di ogni tempo, anche contro le responsabilità di un  occidente  riottoso a accogliere, che, preferendo corazzarsi, vede crollare  pezzi di Shengen e con fili spinati e muri abdica alla propria dignità umana. Un Occidente  ambiguamente  schizofrenico che  mentre  tende una mano caritatevole, usa l’altra per sovvenzionare e sostenere militarmente  eserciti, alimentare conflitti, appoggiare governi che impediscono democratizzazione e sviluppo.

Il romanzo di Ghassan Kanafani  scritto ne 1963,  sembra quasi  profetico e dinanzi al rigurgito di xenofobia  e il riemergere di nuove cortine di ferro non può che configurarsi come una lente critica per esaminare un’ identità europea dove  il significato di un sentire comune e  il sistema valoriale che lo supporta  sembrano   frantumati in reticolati.

La riscrittura teatrale di “Sette minuti”  è, pertanto,  un invito a non voltarsi dall’altra parte, a non  corazzarsi, a non  essere omertosi. Mette sicuramente a dura prova le nostre coscienze, si spera per  un tempo un  po’ più lungo di sette minuti.  Apparentemente un soffio. Come la vita di tanti essere umani.

 

 

 

 

 

TAG: diritti civili, profughi
CAT: Teatro

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